Mirko Kulig
Personalmente, distinguo l’emozione dal sentimento in questo modo:
L’emozione nasce quale diretta conseguenza della percezione, il sentimento nasce dalla relazione che si crea tra la percezione e l’esperienza (rete di concetti) che l’uomo già possiede. Per fare un esempio, ogni essere umano vive un’emozione di spavento iniziale quando ha la percezione di un tuono. Il semplice rumore forte tendenzialmente causa il sorgere iniziale di una paura. Questa è un’emozione. L’immediata risposta interiore è la ricerca, attraverso pensieri, della causa del rumore. Una volta identificata la causa del rumore, se l’esperienza precedente ha insegnato (attraverso tratti culturali per esempio) che il tuono è la conseguenza della rabbia di un dio, si istituirà un sentimento di timore reverenziale. Se invece l’esperienza ha insegnato che il tuono ha origine con un fulmine che deriva da una distribuzione irregolare di cariche elettriche nell’atmosfera, e che io sono ben protetto in casa da un parafulmine, il sentimento che ne consegue sarà di rilassamento (terminazione dello spavento) e forse pure divertimento. L’attenzione qui non è rivolta alla veridicità o falsità di una delle due spiegazioni, ma solo al fattore emotivo-sentimentale associato alla percezione ed alla sua rappresentazione. Penso quindi che si possa affermare che i sentimenti sono plasmabili dalle esperienze che si fanno in vita, e soprattutto dai concetti che creiamo in merito alle percezioni.
Emozioni e sentimenti forti hanno però anche la conseguenza di influenzare il libero flusso dei nostri pensieri. Se pensiamo al sentimento di paura e insicurezza che si può provare prima e durante un esame, vediamo che spesso causa un blocco delle capacità di formulare pensieri. L’allievo, sotto pressione, non riesce a formulare pensieri e spiegazioni che in una situazione di rilassamento non causerebbero difficoltà.
Un’altra caratteristica che osserviamo nelle emozioni in relazione alle percezioni, è che un’emozione forte favorisce la memorizzazione della rappresentazione della percezione che l’ha causata. Abbiamo tutti memoria specifica di almeno un tramonto spettacolare vissuto durante la vita, anche anni addietro, ma non abbiamo memoria specifica di un normale giorno grigio d’inverno.
L’elemento emotivo-sentimentale dell’essere umano non può quindi in alcun modo essere messo da parte, se vogliamo offrire un insegnamento efficace. Se decidiamo di ignorare questo elemento, semplicemente non ci comportiamo in maniera razionale, perché continua ad esserci comunque.
In questo senso, penso che una delle priorità che dobbiamo dare alla nostra lezione sia che i ragazzi non vivano ripetutamente emozioni spiacevoli nella percezione della nostra lezione e della materia. Se è chiaro che vi sono sempre capacità individuali che determinano la simpatia di alcuni allievi e l’antipatia di altri nei riguardi della materia che presentiamo, dalla mia breve esperienza deduco che è possibile dare ad ogni allievo la soddisfazione di arrivare a risolvere un calcolo o comprendere un fenomeno fisico. Ma soprattutto non penso che un allievo meno portato per la materia debba necessariamente associarle sentimenti di paura, impotenza o odio. Se questo avviene, le conseguenze di questo sentimento potrebbero protrarsi anche negli anni futuri, quando magari non siamo più noi l’insegnante di quell’allievo.
Qui subentra il fattore personale di ogni docente. L’associazione di sentimenti positivi o negativi alla percezione della lezione dipende primariamente dal docente. La capacità del docente di rendere la lezione interessante, facile e formativa attraverso un’appropriata associazione di esperienze e concetti, l’individualità stessa del docente e l’approccio umano che ha con gli allievi sono, soprattutto con ragazzi adolescenti, di grandissima importanza. Questo è un altro fatto che può essere ignorato ma che non cessa di esistere per questo. Ma se non viene ignorato, può in realtà venire utilizzato a vantaggio del lavoro formativo.
In una conferenza durante il convegno di Kassel sulla IX classe in aprile 2012, il relatore di cui purtroppo non ricordo il nome, ha mostrato un grafico simile al seguente (l’ho ricostruito a memoria e vuole dare indicazioni solo qualitative generali).
Come si deduce dal grafico, fino alla pubertà nella vita del ragazzo esistono principalmente i genitori e il docente di classe. Durante e dopo la pubertà i meno apprezzati diventano i genitori, ed i più apprezzati diventano i compagni. I docenti perdono importanza, ma meno dei genitori.
Gli adolescenti in questa età cercano modelli da seguire, come si evince chiaramente dal loro modo di vestirsi e atteggiarsi per copiare i loro divi preferiti del cinema e della musica. I docenti sono buoni candidati per divenire modelli visto che passano del tempo con gli allievi. Se riusciamo a diventare modelli validi per i ragazzi, assoceranno a noi ed alla nostra materia sentimenti positivi ed in questo modo ci sarà più interesse nelle lezioni ed un migliore apprendimento. Se non diventiamo modelli ma rimaniamo “neutrali”, l’interesse dei ragazzi dipenderà da fattori individuali (sono dotati o no per la materia) e dalle nostre capacità di insegnamento specifico della materia. Se diventiamo anti-modelli facendoci detestare, per molti ragazzi diventerà una pena tremenda venire alle lezioni e il livello di apprendimento sarà basso. Quindi per il docente interessato a dare un insegnamento di qualità esistono buone ragioni per essere “simpatico” agli allievi, anche nelle classi superiori. Ma soprattutto, non si deve in alcun modo divenire anti-modelli dei ragazzi, altrimenti la materia che insegniamo sarà pure associata a questo sentimento.
Un atteggiamento che parte da idee di “sofferenza per lo studio”, “sacrificio costante”, ed altri concetti simili in uso ancora oggi, può causare l’associazione di sentimenti spiacevoli all’esperienza di apprendimento, con le conseguenze indicate sopra. Dalla mia esperienza, se si riesce a stimolare negli allievi interesse per la materia e stima per il maestro, si riesce anche a convincerli benevolmente ad impegnarsi quando è il momento, senza la necessità di utilizzare strumenti di leva (note) e minacce.
Rimando all’ampia letteratura di Rudolf Steiner per i dettagli specifici della condizione mentale ed emotiva degli allievi di ogni età. Il punto fondamentale da capire è che, in quanto professionisti, siamo noi a dover comprendere il ragazzo e non il ragazzo a dover comprendere noi. Se la lezione va male, se i ragazzi sono infelici e insoddisfatti, se i ragazzi non capiscono, è principalmente colpa nostra, non loro. Queste situazioni derivano frequentemente dalla nostra mancanza di comprensione delle condizioni emotive e mentali dei ragazzi in quel momento.
Per ritornare alla memorizzazione di percezioni tramite il sorgere di un’emozione forte, anche questo fatto può essere utilizzato a vantaggio dell’apprendimento. Penso che parte delle ragioni dell’approccio sperimentale alle materie scientifiche proposto da Rudolf Steiner derivi anche da questo. Un esperimento fatto in modo tale da suscitare emozioni forti, verrà ricordato meglio. Se poi la spiegazione del fenomeno non è ovvia, vi sarà interesse ed il giorno dopo il maestro avrà l’attenzione dei ragazzi.
Non sono un medico, ma da studi effettuati sui centri funzionali del cervello, risulta che il sistema limbico (composto da ippocampo, amigdala e altre strutture) è la sede dei processi di memoria, emozione e apprendimento. Questo sembra confermare la sensatezza di usare attivamente le emozioni dei ragazzi per insegnare.