L’insegnamento delle scienze nelle medie e nelle superiori

secondo il metodo scientifico goetheanistico

quale strumento per insegnare il pensare autonomo

 

Volume I

Concetti generali

Mirko Kulig

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Indice

Introduzione 5

Indicazioni generali sull’insegnamento 7

Il senso dell’insegnamento delle scienze nelle medie 8

Il senso dell’insegnamento delle scienze nelle superiori 10

Il pensare 11

Emozione e sentimento 13

Insegnamento individualizzato 16

Goetheanismo 17

Un esempio di approccio goetheanistico 20

Analisi della creazione di una teoria 22

Lo scopo della scienza 23

Dr. Karl Ludwig von Reichenbach (1788-1869) 24

Wilhelm Reich (1897-1957) 25

Altri 26

Gli obbiettivi dell’insegnamento delle scienze 29

La filosofia della libertà 36

La tripartizione nelle diverse materie 41

Fisica 52

Chimica 60

Geografia 61

Matematica 64

Geometria 65

Il disegno 69

Come si prepara un’epoca 75

Docente di classe che porta un’epoca scientifica 75

Docente di materia 77

Verifiche 83

Volume II 89

Titolo | L’insegnamento delle scienze nelle medie e nelle superiori secondo il metodo scientifico goetheanistico quale strumento per insegnare il pensare autonomo – Concetti generali – Volume I

Autore | Mirko Kulig

© 2021 – Tutti i diritti riservati all’Autore

Questa opera è pubblicata direttamente dall’Autore. L’Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore.

Introduzione

Lo scopo della presente serie di pubblicazioni è quello di presentare in maniera ampia e approfondita la tripartizione della lezione d’epoca come proposta da Manfred von Mackensen nei suoi libri e da Rudolf Steiner stesso nell’Opera Omnia 302. Si tenterà anche di mostrare come questo tipo di tripartizione si basi direttamente sull’opera fondamentale di Rudolf Steiner intitolata La Filosofia della libertà (O.O. 4) e sulla relativa teoria della conoscenza.

Il documento è principalmente orientato agli insegnante di scuola Waldorf, ma i criteri logici espressi ritengo siano comprensibili da chiunque, anche coloro che non hanno conoscenze di pedagogia steineriana, e possono essere un utile ausilio per la preparazione di lezioni di materie scientifiche di qualità.

Nella prima parte si tenterà di contestualizzare l’insegnamento delle scienze nella realtà di oggi e si presenteranno pensieri e riflessioni sull’impostazione interiore necessaria ad un docente di scienze in una scuola Waldorf al fine di dare un insegnamento scientifico di qualità e che possa realmente contribuire al sano sviluppo interiore del ragazzo.

Onde dare supporto pratico, seguiranno una serie di pubblicazioni in cui verrà presentata l’applicazione della tripartizione come da me sviluppata negli ultimi 10 anni di insegnamento in tutta una serie di materie scientifiche nelle classi VI-XI. In queste ultime verrà trattato ogni giorno di epoca per ogni materia suddivise per anno scolastico, portando una proposta di come è possibile procedere nel lavoro pratico-didattico. L’esigenza di fare questo lavoro deriva anche dal fatto che tutt’ora esistono vari modi di applicare una tripartizione dell’epoca, diversi dei quali a mio avviso non hanno basi fondate né nell’opera di Rudolf Steiner e neppure nella comprensione dello sviluppo antropologico dei bambini e dei ragazzi.

Per quanto riguarda l’autore, ho seguito in quanto allievo tutto il percorso di 12 anni che la scuola Waldorf prevede, e per 10 anni sono stato insegnante di scienze presso 2 scuole Waldorf in Ticino, Svizzera. La tripartizione proposta da Mackensen l’ho sperimentata direttamente su di me quando ero allievo grazie ad Alessandro Galli che si è formato direttamente con Mackensen a Kassel, Germania, ed è diventata una prassi ovvia quando sono diventato docente. Non mi erano però chiare le motivazioni di quel modo di procedere. Ho quindi studiato la Filosofia della libertà trovando, ritengo, la risposta alla mia domanda. Da quel momento in avanti, avendo compreso le basi antropologiche che stanno all’origine del funzionamento dell’essere umano, ho sistematicamente proceduto a programmare le epoche su queste basi.

Sono consapevole che i percorsi proposti nelle pubblicazioni specifiche per materia possano essere ulteriormente migliorati, adattati e personalizzati anche sulla base delle caratteristiche individuali di ogni docente, ma penso che quanto sviluppato possa essere un valido contributo per ogni docente seriamente interessato a portare le scienze in modo bello, comprensibile a tutti, entusiasmante e soddisfacente sia per gli allievi che per il docente stesso.

Vorrei spendere alcune parole introduttive per coloro che si approcciano per la prima volta alla pedagogia antroposofica alla ricerca di nuovi metodi di insegnamento. Questo è necessario onde comprendere quanto segue.

Rudolf Steiner è stato un ricercatore e filosofo che ha fondato tutta una serie di movimenti esistenti ancora oggi. Tra i principali annoveriamo la medicina antroposofica, l’agricoltura biodinamica e la pedagogia antroposofica. Al giorno d’oggi esistono circa un migliaio di scuole ed asili in tutto il mondo che si basano sulla pedagogia da lui sviluppata.

Una differenza fondamentale nell’approccio pedagogico-didattico è che le materie principali vengono portate in forma di epoche a partire dalla prima elementare. Un’epoca consiste nel fare due ore di lezione tutti i giorni per 3 settimane o un mese su di uno specifico argomento. Per esempio, si porta la storia per un mese tutti i giorni per due ore trattando un argomento specifico (rivoluzione francese, medioevo, Roma, ecc.), poi si cambia e si porta geografia dell’Europa per un mese tutti i giorni nelle stesse ore, poi si cambia nuovamente e si porta fisica, e così via.

Come sarà subito evidente dalla lettura di ciò che segue, queste due ore giornaliere di lezione di epoca non sono una semplice esposizione della materia fatta in maniera concentrata durante un mese invece che a ritmo settimanale durante l’anno, ma sono a loro volta suddivise in 3 fasi differenziate in cui gli allievi vengono stimolati a fare attività diverse in ogni fase.

Vi sono ovviamente anche ore a ritmo settimanale, ma le materie principali vengono portate in questo modo. Questa modalità permette l’approfondimento degli argomenti in una maniera che non è possibile se tutte le materie vengono portate tutte le settimane per alcune ore. A conferma di ciò, ricordo che la modalità “a corsi” viene spesso utilizzata nelle università, a conferma della validità di questo modo di insegnare.

Un’altra differenza sostanziale dell’approccio steineriano è di introdurre le varie materie in un momento specifico dello sviluppo antropologico del ragazzo onde adattare l’insegnamento alla vita del ragazzo. In pratica, questo significa che, per esempio, la fisica viene già introdotta con una o due epoche nel sesto anno di scuola (prima media), la chimica viene introdotta nel settimo anno di scuola (seconda media), e così via.

Anche la modalità di insegnare, soprattutto le materie scientifiche ma non solo, è alquanto diversa. Nelle scienze si tenta di ripercorrere lo sviluppo delle stesse negli ultimi 500 anni. Grande importanza viene quindi data alla sperimentazione, che è parte integrante e fondamento per la comprensione dei vari argomenti. Si tenta di evitare il più possibile la fornitura di nozioni “a priori”, senza che le stesse siano state derivate tramite ragionamento da un esperimento o da una esperienza.

Infine, per terminare questa corta panoramica, la pedagogia steineriana dà la stessa importanza a tutte le materie, incluse quelle artistiche e artigianali. Il piano di studi include quindi le classiche materie di studio (scienze, materie umanistiche) come pure moltissime attività artistiche quali disegno, pittura, scultura, ecc. e materie artigianali quali cucito, maglia, lavoro del legno, lavoro della creta, lavoro nell’orto, ecc.

Riassumendo, è opinione dell’autore che un insegnamento portato agli allievi come descritto in questo documento sia la base per lo sviluppo di una vera capacità di pensare autonomo.

Indicazioni generali sull’insegnamento

Al giorno d’oggi siamo abituati a pensare che, una volta ottenuto il titolo universitario nella nostra facoltà, siamo “competenti” a portare la materia che abbiamo imparato.

Questo non vale per il docente di scuola Waldorf per tutta una serie di ragioni.

Innanzitutto è necessaria una qualche formazione specifica per comprendere le differenze pedagogiche e didattiche che distinguono una scuola Waldorf dalle altre scuole. Entrerò più a fondo in seguito su questo tema, ma per il momento è sufficiente dire che, soprattutto nell’insegnamento delle scienze, nelle scuole Waldorf si tende a riproporre il percorso fatto dagli scienziati negli ultimi 500 anni. Nella pratica questo significa fare spesso il contrario di quanto si fa nella scuola pubblica, in cui vengono elargite a ritmi serrati “ricette” da applicare, nella totale noncuranza del fatto che i processi che hanno portato alla creazione di tali ricette siano stati compresi o no.

Ciò che si constata oggi è che l’insegnamento pubblico è orientato al raggiungimento di obbiettivi formativi relativi al lavoro futuro degli allievi, e non allo sviluppo della loro entità in quanto esseri umani.

L’insegnamento è un rapporto umano, e ciò che distingue un buon docente da uno meno buono è quasi sempre il modo in cui è capace a relazionarsi con gli allievi. Le conoscenze specifiche della materia sono importanti ma secondarie. Ciò che conta, in un buon maestro, è piuttosto il “come” che non il “quanto”.

Proprio per il modo in cui i docenti stessi sono stati addestrati nelle scuola pubbliche e nelle università, viene richiesto un radicale cambiamento nel modo di relazionarsi con le scienze. Il docente deve prendere piena coscienza che la scienza non ha compreso tutto, deve quindi diventare un ricercatore lui stesso, deve desiderare di comprendere realmente il mondo, e deve rielaborare in modo critico quanto ha appreso all’università. In poche parole, il docente che decide di insegnare in una scuola Waldorf è all’inizio del suo personale percorso di formazione, non alla fine. La laurea gli serve solo come base di partenza. C’è ancora moltissimo da comprendere in questo mondo, in tutti gli ambiti scientifici, e per esperienza personale posso confermare che, se fatto con la dovuta diligenza e serietà, il percorso di preparazione di un epoca presso una scuola Waldorf permette spesso di fare un passo avanti nella comprensione della propria materia, anche se si possiede già una laurea.

È di fondamentale importanza comprendere quale è lo scopo ultimo dell’insegnamento in generale, e nello specifico delle scienze nelle medie e nelle superiori. Per comprendere ciò, è inoltre necessario comprendere di cosa hanno bisogno i ragazzi in queste età.

Il senso dell’insegnamento delle scienze nelle medie

Immaginiamo la seguente situazione: siamo in un convegno in cui si trovano 50 persone di qualsiasi estrazione sociale di età compresa tra i 30 e gli 80 anni. Il relatore scrive alla lavagna la seguente equazione chiedendo di risolverla:

7x + 8 = 3x + 28

Per diverse persone la risoluzione di questa equazione non sarebbe immediata. Qualcuno ci riesce per tentativi, qualcuno dotato di particolari attitudini per la matematica ci riesce per intuizione, altri forse si ricordano il metodo di risoluzione, ma in genere penso che soltanto gli insegnanti di scienze, eventuali fisici, matematici, ingegneri e architetti siano in grado di risolvere questa equazione rapidamente e senza difficoltà. E questo nonostante il fatto che sia un’equazione del livello di VIII classe, quindi matematica delle medie.

Come mai non tutti sanno risolverla? Penso che la ragione sia molto semplice. Tutti hanno imparato a risolvere queste equazioni alle medie, ma poi, finiti gli studi, molti non le hanno mai più usate. Hanno dimenticato il procedimento matematico per risolverle perché nella vita di ogni giorno è raro che ci si trovi confrontati con problemi la cui risoluzione richiede la stesura di un’equazione.

La stessa situazione, credo, si presenterebbe se il relatore chiedesse come risolvere un problema basilare di fisica, o il bilanciamento di una reazione chimica, o la spiegazione della formazione del calcare dalle carcasse degli organismi marini, piuttosto che la nomenclatura di tutte le ossa del corpo umano. Tutte queste sono nozioni che si apprendono durante gli studi, e che poi, nella maggior parte dei casi, si dimenticano perché non servono nella vita se non in casi specifici.

Durante il percorso scolastico, fin dalle medie vengono insegnate nozioni e procedimenti che nella vita di ogni giorno non sono strettamente necessari, se non completamente inutili dal punto di vista pratico. Di conseguenza, vengono rapidamente dimenticati.

Perché allora i programmi scolastici (scuola Waldorf inclusa) insistono a portare questi argomenti? La domanda assume ancora più importanza in un’epoca come la nostra in cui le macchine già fanno praticamente tutto per noi, e non vi è quindi una stretta necessità di apprendere tutte queste nozioni.

Si può rispondere a questa domanda dicendo che un giorno qualcun’altro dovrà lavorare per produrre la tecnologia che ci serve oggi e per poterla migliorare. Certamente, in questo senso le università sono grandi istituzioni. Ma ho l’impressione che l’età in cui un uomo deve cominciare a studiare in previsione di un ipotetico futuro accademico si abbassi costantemente. Paesi con l’inizio della scuola a 4-5 anni, creazione di livelli di prestazione scolastica in 3a media o addirittura prima sono esempi di questa tendenza.

Il primo problema che si crea con questa visione “finalizzata” alla professione è che solo una frazione degli esseri umani ha le qualità specifiche individuali per diventare scienziati, e diversi allievi subiscono quindi l’umiliazione di essere “messi nella classe B”. Sentirsi inadeguato non è sicuramente una prerogativa per sviluppare un interesse per il mondo, per il suo funzionamento e per essere stimolati a studiare. Vi è poi sempre una fascia intermedia di allievi che se la cava e che magari si orienta verso le lingue e le scienze umanistiche. Per questi ultimi il carico di matematica e altre materie scientifiche viene spesso vissuto come un peso, in attesa di giungere nei livelli superiori in cui si potranno dedicare di più alla loro specifica aspirazione umanistica.

Il secondo problema di questa visione “finalizzata” è che, con l’introduzione di verifiche regolari, test e bocciature, si parte dal presupposto che tutti gli allievi debbano avere esattamente lo stesso sviluppo negli stessi tempi e giungere ad una particolare cognizione di causa sui diversi argomenti esattamente nello stesso momento. Se non è così, si ha l’insufficienza e forse si boccia.

La situazione viene poi ulteriormente aggravata dal fatto che per il docente, tutti i ragazzi devono aver raggiunto un certo livello nella sua materia, ma dal punto di vista degli allievi, ogni allievo deve raggiungere il livello stabilito dai docenti di tutte le materie. Ricordo a questo punto che questo vale per livelli in cui parte degli adulti faticano già solo in una materia (esempio delle equazioni). In pratica, già dalle medie, aspiriamo a creare dei ragazzi che sanno di più di noi adulti. Sorge la domanda se questa impostazione funzioni. In base alla mia esperienza, ritengo che questa impostazione funzioni parzialmente solo per poche persone.

Dovremmo quindi cambiare il programma, smettere di insegnare alcune materie? Io penso che il programma generale previsto per le medie nella scuola Waldorf sia adatto e non sia un sovraccarico. Dobbiamo però prendere coscienza delle ragioni più profonde per cui si insegnano la matematica e le altre materie scientifiche. La risposta più importante a questa domanda non è in relazione alla preparazione a studi futuri, ma è collegata con le caratteristiche specifiche dello sviluppo dell’essere umano in queste età.

Innumerevoli esperienze dimostrano che con il 12° anno di età sorge la scintilla del pensiero cosciente. Questo fatto è mostrato dal programma pubblico (le medie cominciano con il sesto anno scolastico) come pure da quello Waldorf, in cui viene introdotta la fisica e poi la chimica nel settimo anno scolastico. Ma la grande differenza non sta’ nelle materie insegnate, quanto nel modo di procedere nell’insegnamento. A partire dalla VI classe si cerca di mostrare il mondo con una visione indagatrice, che susciti un interesse di tipo scientifico, di pensiero. Le impressioni del mondo esterno non vengono più solo portate con sentimento come si fa nelle elementari, ma con maggiore rielaborazione di pensiero. Questo processo graduale che parte in VI classe si dovrebbe concludere con la XII classe. Si deve accompagnare il pensare nel suo sviluppo dando al ragazzo quanto è specificamente utile al suo sviluppo per ogni anno di età.

È mia opinione che l’insegnamento della matematica per accompagnare lo sviluppo del pensiero nel ragazzo va visto più come uno strumento che non una materia fine a se stessa. Nello stesso modo, l’insegnamento della fisica, della chimica, della biologia e della geografia hanno lo scopo principale di insegnare a pensare in relazione all’ambito di trattazione della singola materia, e solo in secondo luogo di insegnare la materia stessa. Le due cose sono strettamente collegate, ma fa la differenza su cosa si pone l’accento.

I vantaggi di un insegnamento impostato in questo modo, sono l’eliminazione di aride nozioni che si dimenticano facilmente e l’introduzione di pensieri viventi nell’insegnamento che vanno realmente ad arricchire il bagaglio di esperienze del ragazzo contribuendo più efficacemente alla creazione di una sua immagine del mondo.

 

Il senso dell’insegnamento delle scienze nelle superiori

Prima di affrontare l’insegnamento delle scienze nelle superiori, è necessario porsi la domanda: si può ritenere che con la fine del nono anno scolastico, o 15° anno di vita, il ragazzo abbia acquisito conoscenze ed esperienze sufficienti a comprendere il mondo e ad integrarsi nella società? In altri termini, lo sviluppo del ragazzo si conclude con il 15° anno di età? Riconosco di non conoscere le ragioni pedagogiche, se ve ne sono, che hanno portato in Svizzera all’istituzione di 9 anni di scuola obbligatoria.

Valutando la domanda dal punto di vista dello sviluppo fisico, possiamo affermare che certamente la maggior parte degli esseri umani ha raggiunto la maturità sessuale e che i singoli elementi che compongono il corpo fisico umano sono tutti presenti in una forma più o meno definitiva. Dopo i 15 anni di vita vi è però comunque ancora crescita nelle dimensioni e leggeri cambiamenti nelle proporzioni fisiche del corpo.

Dal punto di vista emotivo-sentimentale come pure mentale la situazione è completamente diversa. In concomitanza con l’avvento della maturità sessuale fisica che si compie in questi anni, nascono dimensioni emotive e mentali completamente nuove e sconosciute al ragazzo. Diverse fonti danno indicazione del fatto che durante l’adolescenza si sviluppa il pensiero consapevole e razionale. Sappiamo che Rudolf Steiner indica il terzo settennio di vita (~14-21 anni) come il periodo in cui l’essere umano sviluppa le facoltà di pensare. Non ho fatto studi approfonditi, ma una veloce ricerca indica che altri psicologi comportamentali riconoscono che durante l’adolescenza vi è un rapido sviluppo cognitivo ed il pensiero dell’individuo acquisisce una forma più astratta. Altri studi hanno mostrato come in questi anni si sviluppano capacità cognitive che permettono la coordinazione di pensiero e comportamento. Ne è stato concluso che i pensieri, le idee e i concetti sviluppati in questo periodo della vita influenzano molto la vita futura di una persona, giocando un ruolo importante nella formazione del carattere e della personalità. Viene inoltre affermato che le facoltà di pensiero di un ragazzo intorno ai 15 anni sono paragonabili a quelle di un adulto. [1]

Il fatto che il ragazzo abbia facoltà di pensare come un adulto non significa ancora che abbia formulato concetti ed idee e raccolto esperienze sufficienti ad ordinare in una visione interiore le percezioni che ha del mondo. A differenza dello sviluppo fisico, che avviene naturalmente con poco influsso umano diretto tranne che la fornitura degli elementi base per le funzioni organiche (calore, aria, acqua, cibo) il pensare è una facoltà che va formata, per la stessa ragione per cui non basta avere le mani per saper suonare un pianoforte. Come le mani sono requisito necessario ma non sufficiente per suonare il pianoforte, la facoltà di pensare è necessaria ma non sufficiente a formare un essere umano del nostro tempo.

Si constata quindi che, in concomitanza alla comparsa di nuovi elementi costitutivi dell’essere umano, la società ritiene di aver terminato la formazione di base. Da qui in poi l’unica cosa che conta è l’indirizzo professionale specifico che il ragazzo può prendere possibilmente basato su talenti individuali. Per fare un paragone un po’ provocatorio, sarebbe come se dopo aver insegnato le 4 operazioni di base (+, -, x, 🙂 dessi agli allievi un’equazione da risolvere considerando che comunque, a livello prettamente numerico, non devono fare altro che somme, sottrazioni, divisioni e moltiplicazioni. Ma come la matematica non consiste solo in calcoli numerici, così l’essere umano non consiste unicamente in un corpo fisico. Questa osservazione non necessita di visioni antroposofiche per essere compresa. Oltre 100 anni di società civile e strutturata ci hanno insegnato che persone psicologicamente o mentalmente instabili sono un peso per la società. Quindi la mente e la psiche hanno un impatto sulla società umana e necessitano di essere adeguatamente accompagnate nel loro sviluppo.

Il ragazzo viene inoltre posto di fronte alla decisione sulla sua professione futura in un periodo in cui il suo stato viene definito di “fragilità somatica e psicologica”[2].

Riassumendo, con il sorgere di nuove dimensioni emotive e mentali nel ragazzo, invece di accompagnarlo durante il periodo di sviluppo di queste nuove facoltà, si tende oggi non solo ad abbandonarlo ritenendo che non vi sia più nulla di umano da insegnargli, ma lo si pone impreparato davanti alla prima delle grandi domande che dovrà affrontare in vita. La pressione della decisione viene inoltre incrementata dal fatto che alcune scelte sono praticamente definitive: se non si fa il liceo, sarà molto difficile in futuro andare all’università.

Per le suddette ragioni, e altre che non posso discutere in questa sede, sono quindi dell’avviso che lo sviluppo dell’essere umano non si concluda con i 15 anni.

In base a queste considerazioni, il senso dell’insegnamento delle scienze nelle classi superiori secondo me deve essere quello di accompagnare lo sviluppo del pensare onde fornire ai ragazzi uno strumento di elaborazione della realtà percepita.

Ritengo che le indicazioni dettagliate fornite da Rudolf Steiner sia sul piano di studi che sulla metodologia siano strumenti per accompagnare lo sviluppo del pensare autonomo del ragazzo in maniera adatta all’età.

Resta da definire cosa si intenda per “accompagnare lo sviluppo del pensare”. Farò un tentativo di approfondimento nelle prossime pagine.

 

Il pensare

Cercherò ora di presentare alcuni pensieri come da me compresi dell’opera La filosofia della libertà di Rudolf Steiner.

Ci si chiede: come nasce il pensare? La prima esperienza umana è la percezione. La conseguenza della percezione è la creazione interiore di una rappresentazione. Anche se vedo un oggetto e non so’ cosa sia, nel pensiero posso rivederlo davanti a me. Similmente, posso discriminare un suono dall’altro ripetendone la percezione. Abbiamo una rappresentazione interiore del gusto di una mela che ci permette di distinguerlo da un altro gusto. Questa capacità di discriminazione deriva dalla rappresentazione iniziale della percezione. Con la susseguente esperienza di vita, questa rappresentazione si arricchisce di concetti che la collegano ad altre rappresentazioni.

L’osservazione: “Il cielo sta’ sopra di me” necessita la precedente creazione del concetto “cielo”, del concetto “stare”, del concetto “sopra” e del concetto “me”. Ma anche il concetto “sopra” può solo esistere se vi è un concetto “sotto”, quindi vi è in questa semplice frase già una serie di concetti “intrinseci”. Il fatto importante su cui Steiner pone l’accento è che se si fa l’esperimento di pensiero di risalire ai concetti primari, si constata che questi non possono essersi formati in altro modo che quale conseguenza della percezione. I concetti più complessi nascono quando si mettono in relazione tra loro più rappresentazioni. I concetti “legano” quindi le rappresentazioni.

Il legame di tanti concetti diventa un’idea. L’associazione di idee costruisce teorie e visioni. Le teorie e le visioni ci servono per comprendere la realtà.

Rimando alla lettura della Filosofia della libertà per un approfondimento sui pensieri qui appena accennati.

Quello che ci interessa di questo discorso è il fatto che il processo di associazione di concetti a rappresentazioni già esistenti nel ragazzo non avviene necessariamente da solo. È quindi sicuramente compito delle diverse materie il presentare al ragazzo nuove rappresentazioni e concetti che non ha ancora sperimentato nella vita, ma l’attenzione principale deve essere posta, a mio avviso, sull’associazione dei concetti specifici di ogni materia tra di loro, sui concetti che il ragazzo già possiede, e soprattutto sulla realtà percepita dal ragazzo.

L’insegnamento di concetti e teorie in modo più o meno svincolato dalla realtà percepita dal ragazzo è generalmente poco interessante e poco costruttivo. Se si insegna un nuovo concetto senza “inserirlo” nel tessuto di concetti già presenti nella visione del mondo del ragazzo, esso non ne sarà arricchita e quindi il concetto verrà dimenticato rapidamente. Se rappresentiamo la visione della realtà come un mosaico in costruzione, il nuovo concetto che abbiamo portato dovrebbe diventare un sassolino colorato che ne accresce la definizione. Questo può idealmente avvenire se l’insegnamento del nuovo concetto deriva da un’esperienza reale che entra a far parte dell’orizzonte delle percezioni del ragazzo.

Per esempio, faccio un esperimento in cui mostro come i metalli si dilatano con l’aumento della temperatura. Già questo in sé accresce la rappresentazione della realtà del ragazzo. Il metallo, se scaldato, si dilata. Il giorno dopo richiamo alla memoria esperienze che i ragazzi già conoscono o ne illustro di nuove in cui questo processo fisico si manifesta. Mostro perché questo fenomeno può avere un interesse per l’essere umano (esempio dei ponti che hanno i giunti di espansione). Mostro inoltre come con certi strumenti matematici posso calcolare quanto è questa dilatazione. La rappresentazione collegata ai concetti preesistenti di calore, metallo, dilatazione, ponte, ecc. si è arricchita. Tutti questi sono concetti che derivano dalla percezione. Il nuovo concetto quindi si inserisce nel tessuto di concetti affermati che già esistevano. Il mosaico della visione del mondo del ragazzo possiede un sassolino in più.

Il fatto di “raccontare” che il fenomeno esiste e poi andare direttamente alla formula che ne calcola le grandezze, viene interiorizzato molto meno. Questo anche perché non avendo esperienza del fenomeno, lo si deve prendere dal docente “sulla parola”. Quello che si tenta di fare in questo modo, è di creare una rappresentazione partendo da concetti già esistenti, e non derivata dalla percezione. Vi saranno allievi che accettano e comprendono il concetto anche in questo modo, ma questo a mio avviso vale solo per una minoranza. Partendo invece dall’esperienza e la sua conseguente elaborazione, costruisco associazioni di concetti che sono comprensibili praticamente per tutti i ragazzi perché derivano dalle percezioni che hanno avuto.

Per fare un esempio di vita reale, basta pensare ad un paesaggio. Quante parole e concetti dovrebbero essere usati per descrivere un paesaggio, in confronto al semplice fatto di mostrarlo? Quale dei due approcci (spiegare, mostrare) permette al ragazzo di avere una rappresentazione più chiara di quello specifico paesaggio? Con questo non intendo dire che in specifiche situazioni non sia molto importante permettere, attraverso descrizioni, la formazione di una rappresentazione interiore al ragazzo. Dobbiamo solo ricordare che i collegamenti concettuali automatici che il ragazzo fa nel momento in cui osserva il paesaggio (quella è una montagna, quello è un lago, quello è un bosco di pini, il vento crea delle onde, ecc.) devono essere fatti a parole da noi. Se poi si vogliono aggiungere altre percezioni, come l’odore, il suono, eccetera, il lavoro diventa estremamente lungo e se non fatto bene, pedante.

Quando questo processo di creazione di rappresentazioni attraverso concetti avviene in tutte le materie a ritmi velocissimi con regolare verifica delle nozioni apprese, i pensieri sul fenomeno si riducono all’apprendere l’applicazione delle formule e la memorizzazione delle nozioni. Il sassolino (concetto) rimane orfano e non si inserisce nel mosaico. La nozione viene rapidamente dimenticata quando non è più utile (dopo l’esame).

Dobbiamo poi considerare che anche l’attività di apprendimento è un’esperienza composta di percezioni. Ad ogni percezione si associa anche un’emozione. Un tipo di emozione è, per esempio, “mi piace” e “non mi piace”. La conseguenza di questo fatto è che per associare i concetti specifici di ogni materia alla realtà percepita dal ragazzo, non possiamo non tenere conto delle emozioni e dei sentimenti che si associano all’esperienza di apprendimento.

 

Emozione e sentimento

Personalmente, distinguo l’emozione dal sentimento in questo modo:

L’emozione nasce quale diretta conseguenza della percezione, il sentimento nasce dalla relazione che si crea tra la percezione e l’esperienza (rete di concetti) che l’uomo già possiede. Per fare un esempio, ogni essere umano vive un’emozione di spavento iniziale quando ha la percezione di un tuono. Il semplice rumore forte tendenzialmente causa il sorgere iniziale di una paura. Questa è un’emozione. L’immediata risposta interiore è la ricerca, attraverso pensieri, della causa del rumore. Una volta identificata la causa del rumore, se l’esperienza precedente ha insegnato (attraverso tratti culturali per esempio) che il tuono è la conseguenza della rabbia di un dio, si istituirà un sentimento di timore reverenziale. Se invece l’esperienza ha insegnato che il tuono ha origine con un fulmine che deriva da una distribuzione irregolare di cariche elettriche nell’atmosfera, e che io sono ben protetto in casa da un parafulmine, il sentimento che ne consegue sarà di rilassamento (terminazione dello spavento) e forse pure divertimento. L’attenzione qui non è rivolta alla veridicità o falsità di una delle due spiegazioni, ma solo al fattore emotivo-sentimentale associato alla percezione ed alla sua rappresentazione. Penso quindi che si possa affermare che i sentimenti sono plasmabili dalle esperienze che si fanno in vita, e soprattutto dai concetti che creiamo in merito alle percezioni.

Emozioni e sentimenti forti hanno però anche la conseguenza di influenzare il libero flusso dei nostri pensieri. Se pensiamo al sentimento di paura e insicurezza che si può provare prima e durante un esame, vediamo che spesso causa un blocco delle capacità di formulare pensieri. L’allievo, sotto pressione, non riesce a formulare pensieri e spiegazioni che in una situazione di rilassamento non causerebbero difficoltà.

Un’altra caratteristica che osserviamo nelle emozioni in relazione alle percezioni, è che un’emozione forte favorisce la memorizzazione della rappresentazione della percezione che l’ha causata. Abbiamo tutti memoria specifica di almeno un tramonto spettacolare vissuto durante la vita, anche anni addietro, ma non abbiamo memoria specifica di un normale giorno grigio d’inverno.

L’elemento emotivo-sentimentale dell’essere umano non può quindi in alcun modo essere messo da parte, se vogliamo offrire un insegnamento efficace. Se decidiamo di ignorare questo elemento, semplicemente non ci comportiamo in maniera razionale, perché continua ad esserci comunque.

In questo senso, penso che una delle priorità che dobbiamo dare alla nostra lezione sia che i ragazzi non vivano ripetutamente emozioni spiacevoli nella percezione della nostra lezione e della materia. Se è chiaro che vi sono sempre capacità individuali che determinano la simpatia di alcuni allievi e l’antipatia di altri nei riguardi della materia che presentiamo, dalla mia esperienza deduco che è possibile dare ad ogni allievo la soddisfazione di arrivare a risolvere un calcolo o comprendere un fenomeno fisico. Ma soprattutto non penso che un allievo meno portato per la materia debba necessariamente associarle sentimenti di paura, impotenza o odio. Se questo avviene, le conseguenze di questo sentimento potrebbero protrarsi anche negli anni futuri, quando magari non siamo più noi l’insegnante di quell’allievo.

Qui subentra il fattore personale di ogni docente. L’associazione di sentimenti positivi o negativi alla percezione della lezione dipende primariamente dal docente. La capacità del docente di rendere la lezione interessante, facile e formativa attraverso un’appropriata associazione di esperienze e concetti, l’individualità stessa del docente e l’approccio umano che ha con gli allievi sono, soprattutto con ragazzi adolescenti, di grandissima importanza. Questo è un altro fatto che può essere ignorato ma che non cessa di esistere per questo. Ma se non viene ignorato, può in realtà venire utilizzato a vantaggio del lavoro formativo.

In una conferenza durante il convegno di Kassel sulla IX classe in aprile 2012, il relatore di cui purtroppo non ricordo il nome, ha mostrato un grafico simile al seguente (l’ho ricostruito a memoria e vuole dare indicazioni solo qualitative generali).

Come si deduce dal grafico, fino alla pubertà nella vita del ragazzo esistono principalmente i genitori e il docente di classe. Durante e dopo la pubertà i meno apprezzati diventano i genitori, ed i più apprezzati diventano i compagni. I docenti perdono importanza, ma meno dei genitori.

Importanza per il ragazzo

Figura 1 – Importanza per il ragazzo

Gli adolescenti in questa età cercano modelli da seguire, come si evince chiaramente dal loro modo di vestirsi e atteggiarsi per copiare i loro divi preferiti del cinema e della musica. I docenti sono buoni candidati per divenire modelli visto che passano del tempo con gli allievi. Se riusciamo a diventare modelli validi per i ragazzi, assoceranno a noi ed alla nostra materia sentimenti positivi ed in questo modo ci sarà più interesse nelle lezioni ed un migliore apprendimento. Se non diventiamo modelli ma rimaniamo “neutrali”, l’interesse dei ragazzi dipenderà da fattori individuali (sono dotati o no per la materia) e dalle nostre capacità di insegnamento specifico della materia. Se diventiamo anti-modelli facendoci detestare, per molti ragazzi diventerà una pena tremenda venire alle lezioni e il livello di apprendimento sarà basso. Quindi per il docente interessato a dare un insegnamento di qualità esistono buone ragioni per essere “simpatico” agli allievi, anche nelle classi superiori. Ma soprattutto, non si deve in alcun modo divenire anti-modelli dei ragazzi, altrimenti la materia che insegniamo sarà pure associata a questo sentimento.

Un atteggiamento che parte da idee di “sofferenza per lo studio”, “sacrificio costante”, ed altri concetti simili in uso ancora oggi, può causare l’associazione di sentimenti spiacevoli all’esperienza di apprendimento, con le conseguenze indicate sopra. Dalla mia esperienza, se si riesce a stimolare negli allievi interesse per la materia e stima per il maestro, si riesce anche a convincerli benevolmente ad impegnarsi quando è il momento, senza la necessità di utilizzare strumenti di leva (note) e minacce.

Rimando all’ampia letteratura di Rudolf Steiner per i dettagli specifici della condizione mentale ed emotiva degli allievi di ogni età. Il punto fondamentale da capire è che, in quanto professionisti, siamo noi a dover comprendere il ragazzo e non il ragazzo a dover comprendere noi. Se la lezione va male, se i ragazzi sono infelici e insoddisfatti, se i ragazzi non capiscono, è principalmente colpa nostra, non loro. Queste situazioni derivano frequentemente dalla nostra mancanza di comprensione delle condizioni emotive e mentali dei ragazzi in quel momento.

Per ritornare alla memorizzazione di percezioni tramite il sorgere di un’emozione forte, anche questo fatto può essere utilizzato a vantaggio dell’apprendimento. Penso che parte delle ragioni dell’approccio sperimentale alle materie scientifiche proposto da Rudolf Steiner derivi anche da questo. Un esperimento fatto in modo tale da suscitare emozioni forti, verrà ricordato meglio. Se poi la spiegazione del fenomeno non è ovvia, vi sarà interesse ed il giorno dopo il maestro avrà l’attenzione dei ragazzi.

Non sono un medico, ma da studi effettuati sui centri funzionali del cervello, risulta che il sistema limbico (composto da ippocampo, amigdala e altre strutture) è la sede dei processi di memoria, emozione e apprendimento. Questo sembra confermare la sensatezza di usare attivamente le emozioni dei ragazzi per insegnare.

Insegnamento individualizzato

Se si condividono le considerazioni esposte nel capitolo “Il senso dell’insegnamento delle scienze nelle classi superiori”, ne deriva che l’approccio pedagogico e didattico deve permettere a tutti gli allievi di trarre beneficio da tutte le lezioni. Questo significa che non può esistere un allievo che alla fine di un’epoca non ha compreso nulla, e non ci si deve neppure attendere che tutti gli allievi abbiano compreso tutto. Senza entrare nell’analisi delle ovvie differenze esistenti tra un allievo e l’altro determinate dai diversi talenti che ogn’uno possiede, si deve anche tenere conto del fatto che le rappresentazioni che ogni allievo ha formato durante gli anni riguardo ad una particolare realtà percepita, sono necessariamente diverse, personalizzate. Nel momento in cui gli allievi arrivano nelle classi superiori, i concetti che sono stati legati a quella particolare realtà percepita dipendono dai genitori, dal maestro di classe delle elementari, dai maestri delle medie, dalle esperienze fatte e dai concetti ed i sentimenti che l’allievo ha collegato da solo alla percezione in questione.

Il maestro dovrebbe cercare di seguire ogni allievo nel suo percorso di associazione delle nuove esperienze e dei nuovi concetti ai concetti ed alle rappresentazioni che l’allievo già possiede.

Nelle ore settimanali di matematica, basare il proprio insegnamento e la velocità con cui si procede solo sugli allievi più dotati è ovviamente sbagliato, come pure non si può andare alla velocità dell’allievo più lento, altrimenti gli altri si annoiano e la lezione ne viene disturbata. Bisogna quindi dare la possibilità agli allievi rapidi di procedere al loro ritmo, come pure seguire gli allievi più lenti nel tentativo di trovare metodologie diverse di esporre i concetti in modo che siano comprensibili anche per questi ultimi.

Spesso può essere un aiuto stimolare i più bravi a spiegare agli allievi meno dotati quello che non hanno compreso. Entrambi ne possono trarre grande vantaggio: i dotati perché devono trovare da soli parole e concetti per spiegare quanto compreso, i più deboli perché la rappresentazione data dai compagni può essere più comprensibile di quella data dal maestro. In questo senso ho fatto diverse esperienze molto positive.

La valutazione poi del singolo allievo deve essere personalizzata in base alla percezione che il maestro ha di ogni allievo. Questo approccio deriva dalla constatazione che, per esempio, un allievo non dotato in matematica che riesce in modo indipendente a fare la metà di un disegno geometrico complesso, ha dovuto impegnarsi molto di più di un allievo dotato per fare il disegno completo. Questa differenza non deve essere motivo di discriminazione per l’allievo meno bravo. Il docente deve imparare a conoscere e valutare ogni singolo allievo per le sue capacità, nella consapevolezza che sforzarlo a fare molto di più di quanto non sia realmente in grado di fare non porta ad un accrescimento delle sue capacità. Anzi, potrebbe determinare il sorgere di complessi e la conseguente associazione di sentimenti non positivi alla materia in cui ha difficoltà. Le conseguenze di questo fatto sono già state esposte nel capitolo precedente.

Sarebbe auspicabile che ogni docente abbia a coscienza le capacità, i talenti e la condizione emotiva e sentimentale di ogni allievo e che esse siano globalmente osservate e valutate. Solo in questo modo vi può essere una reale comprensione di ogni allievo e lo sviluppo conseguente di modi adatti di portargli la materia. Va inoltre tenuto in considerazione che proprio in questi anni le condizioni sentimentali e mentali di ogni allievo continuano a variare, e quindi l’immagine complessiva che il docente si è fatto deve essere dinamica.

In quanto ex allievo di scuola Waldorf, ho personalmente constatato la validità di questo approccio che ha permesso in passato agli allievi più deboli di arrivare alla fine del piano di studi anche se si sarebbe detto che “erano indietro”.

Un ragazzo che era in classe con me, tutto d’un tratto verso la fine della XII classe è fiorito ed ha mostrato di aver interiorizzato una buona parte di quanto sembrava che non avesse compreso negli anni precedenti.

In un altro caso, il ragazzo difficoltoso è poi riuscito ad andare all’università e ottenere un titolo di studio superiore che difficilmente avrebbe ottenuto in un sistema basato sulla valutazione omologata per tutti gli allievi.

Penso che la valutazione individuale degli allievi sia uno degli obbiettivi di una scuola Waldorf, soprattutto nelle classi superiori. Il fatto è anche molto apprezzato dagli allievi che non si sentono “un numero”, ma che sperimentano l’interessamento del docente riguardo la loro persona. Senza entrare nei dettagli, ritengo che questo atteggiamento da parte del maestro sia un grande stimolo allo sviluppo delle forze dell’Io dell’allievo.

È inoltre di somma importanza ricordare che, in quanto maestri, siamo al servizio degli allievi, e non il contrario. Il docente che si considera superiore all’allievo e che ne richiede il rispetto che lui stesso non è disposto a dargli, non sarà mai apprezzato e di conseguenza la qualità dell’apprendimento ne risentirà.

Studi psicologici e criminologici mostrano come generalmente un adulto porterà avanti, consapevolmente o inconsapevolmente, la realtà che ha vissuto da bambino e da giovane. Questo fatto si spiega molto facilmente: l’adulto non conosce un’altra realtà da implementare se non quella che ha vissuto, soprattutto da bambino e da ragazzo.

Ad un docente di scuola Waldorf viene quindi richiesto un grande sforzo per identificare gli atteggiamenti personali e di insegnamento che porta in classe e che hanno origine nella sua esperienza scolastica da giovane e da bambino. Questi atteggiamenti vanno valutati in modo critico ed eventualmente modificati alla luce di quanto esposto da Rudolf Steiner e altri. Il processo è molto lungo e può richiedere anni, ma non per questo va tralasciato.

Goetheanismo

L’approccio scientifico che generalmente viene proposto nelle scuole Waldorf è quello goetheanistico. È quindi appropriato parlarne in questa sede.

Ritengo incompleta l’illustrazione che tenterò di dare ora, e la includo solo quale stimolo ad ulteriori pensieri da parte del lettore.

Userò il confronto tra le teorie dei colori di Newton e di Goethe[3] che sono un buon esempio dei due tipi di approccio.

Partiamo da Newton. Nel tentativo di comprendere meglio cosa sia la luce, Newton impostò il seguente esperimento:

Attraverso una sorta di cornice, Newton isolò un fascio di luce solare. Questo fascio venne fatto passare attraverso un prisma di vetro. Il fascio che usciva dal prisma di vetro era composto da vari colori, nello specifico, i colori dell’arcobaleno. Newton ne concluse che la luce bianca è composta dai diversi colori che osserviamo dopo che la luce ha attraversato il prisma.

Figura 2 – Il prisma

Tempo dopo si è compreso che la luce è un’onda elettromagnetica, che ogni colore rappresenta una frequenza, e che l’associazione delle diverse frequenze crea la luce bianca. Questa è ancora la teoria ufficiale, ma nel frattempo sono stati scoperti i fotoni. Questi sono piccole particelle sub-atomiche (più piccole degli atomi) la cui esistenza spiega certi fenomeni. Il modello ondulatorio e il modello particolare sono oggi complementari. Il modello ondulatorio va bene per alcuni fenomeni, mentre quello particolare ne spiega degli altri. A seconda del fenomeno da spiegare, si usa un modello oppure l’altro.

L’obiezione primaria di Goethe alla teoria di Newton è la seguente.

Il fenomeno di luce come si manifesta normalmente è di luce diffusa nell’atmosfera che illumina l’ambiente circostante. C’è ovviamente una fonte, ma il fenomeno è unitario intorno a me. Quindi l’aver “isolato” un raggio di luce significa l’aver creato un’iniziale condizione sperimentale che differisce dalle condizioni ordinarie del fenomeno della luce. Il raggio isolato viene poi fatto passare attraverso un prisma. Ho creato quindi una seconda condizione sperimentale che è l’interazione della luce con una materia translucida. Goethe quindi obbietta che queste due condizioni sperimentali vanno tenute in considerazione prima di dare un giudizio conclusivo sul fenomeno della luce nella sua manifestazione ordinaria. Osserva che queste condizioni sperimentali hanno quale conseguenza il fatto che vi sia contatto tra luce ed ombra. Dalle sue osservazioni, in cui descrive decine di esperimenti ripetibili, Goethe conclude che i colori nascono quando luce ed ombra interagiscono sotto certe condizioni, e che in questo modo si spiega anche il fenomeno del prisma.

La teoria è più elaborata di come scritto qui, ma l’idea di base dell’approccio di Goethe vuole solo indicare che, per quanto sia giusto e scientificamente corretto creare condizioni sperimentali per studiare nel dettaglio un fenomeno, non si possono trarre conclusioni affrettate senza tenere conto delle condizioni sperimentali stesse che abbiamo creato. Per questa ragione, Goethe fece molti esperimenti nella ricerca di tratti comuni che potessero effettivamente dare una spiegazione veritiera della luce e dell’oscurità, o fornire eventuali limiti alla nostra conoscenza del fenomeno.

Riassumendo, abbiamo da un canto una teoria funzionale che ha permesso migliaia di applicazioni pratiche ma che ci ha portati, da un punto di vista logico e scientifico, in un vicolo cieco. Due teorie (modello ondulatorio e modello particolare) per spiegare lo stesso fenomeno.

Dall’altra parte abbiamo invece una teoria che si basa sulla percezione umana del fenomeno e che indaga il fenomeno sperimentalmente elaborando pensieri solo dall’osservazione diretta.

Se un’osservazione non permette di dire di più su di un dato fenomeno, o non si dice di più, o si creano condizioni sperimentali diverse per analizzare il fenomeno da un’altra prospettiva.

I modelli della realtà che abbiamo oggi, anche se funzionali, sono frutto di teorie che giungono a negare l’affidabilità della percezione quale strumento d’indagine del mondo.

Ricordo che secondo diversi scienziati di oggi, il mondo è grigio, senza odori, senza colori, senza suoni e che tutto quello che percepiamo è illusione dei sensi e creato dal nostro cervello[4].

Ma una teoria della realtà che neghi l’affidabilità della percezione quale strumento di indagine, dimentica che i concetti di base su cui è stata costruita la teoria stessa erano a loro volta conseguenza della percezione. Se parlo di “velocità di un elettrone”, non devo dimenticare che i concetti di “spazio” e “tempo” che determinano il concetto di “velocità” sono derivati dall’esperienza della percezione. Senza percezione, non si potevano creare i concetti di spazio e di tempo. Ma se la percezione non è affidabile e scientifica, allora anche i concetti di spazio e tempo non sono affidabili, e quindi anche la teoria che ne fa uso non è affidabile.

Per le ragioni spiegate nel capitolo “Il pensare”, vi è una fondamentale contraddizione nel processo di pensiero come lo possiamo osservare in molti ambiti della scienza moderna. Il pensiero nasce dalla percezione, quindi ogni teoria (associazione di idee) che posso fare, si baserà sempre su concetti che derivano dalla percezione. Questa nuova teoria non può quindi arrivare a dire che la percezione è solo un’illusione, perché in questo modo nega la legittimità di sé stessa.

Per tornare ancora un attimo alla luce, nei miei studi ho scoperto anche la seguente incongruenza nella teoria ondulatoria attualmente in uso.

Secondo questa teoria, che già si compone di due teorie (particolare e ondulatoria), la luce è un’onda elettromagnetica di una certa banda di frequenze. In realtà, l’ultima definizione che ho studiato dice che la luce è la probabilità di incontrare un fotone in un dato punto dello spazio-tempo, e questa probabilità segue le leggi delle onde. Comunque, non vi è dubbio che, soprattutto per quanto riguarda i colori, la teoria ondulatoria è quella utilizzata.

Secondo la teoria ondulatoria come possiamo constatarlo nel suono e nelle onde elettromagnetiche di bassa frequenza (onde radio convenzionali che usiamo per le trasmissioni), la somma di due frequenze produce un’onda complessa che è la somma delle altezze delle due onde in ogni momento nello spazio e nel tempo. In poche parole, se sommo un 100 Hz con un 200 Hz ottengo un onda che contiene ancora entrambe le frequenze di partenza, con zone di interferenza costruttiva e zone di interferenza distruttiva. Nel suono, posso riconoscere le due note come esistenti in maniera indipendente.

Per le frequenze della luce, viene definito per esempio:

Giallo: ca. 520-540 THz

Verde: ca. 540-575 THz

Ciano: ca. 575-610 THz

(I dati variano sensibilmente a seconda della fonte)

Dall’osservazione di esperimenti ripetibili, sappiamo che proiettando su una parete bianca un fascio di luce giallo e uno ciano, laddove si sovrappongono ottengo il verde.

Secondo la teoria ondulatoria della luce, questo significherebbe che 2 frequenze elettromagnetiche, sommandosi, creino una terza frequenza indipendente dalle prime due e che corrisponde a circa la media delle due frequenze di partenza.

Questo non si osserva in nessun ambito in cui possiamo studiare le onde direttamente. Un 100 Hz sonoro insieme ad un 200 Hz non produce un 150 Hz.

Allora mi sono chiesto come sono state misurate le frequenze della luce. Con campi elettromagnetici di frequenza più bassa si può rilevare, attraverso l’induzione (antenna o bobina) le variazioni di tensione determinate dall’incidere di un’onda di una certa frequenza. Con la luce mi sembra di capire che questo non si è potuto ancora fare perché le frequenze sono troppo alte per gli strumenti che abbiamo. In pratica, i metodi utilizzati appaiono essere deduttivi e lavorano sull’interferenza e sui ritardi di propagazione determinati da percorsi di lunghezza diversa.

Ho sottoposto queste mie considerazioni ad un amico più formato di me in fisica quantistica e il suo commento è stato che è l’occhio a sbagliare. Alla mia risposta che allora sbagliano anche le cineprese vecchie e quelle digitali moderne, ha risposto che per i 3 colori, nel CCD, si usano filtri. Ma se un filtro verde dovrebbe far passare solo la frequenza elettromagnetica del verde, allora il giallo ed il ciano non dovrebbero passare e quindi il verde creato in questo modo non dovrebbe essere rilevato dal CCD. Il punto è che penso che alla fine il CCD è stato fatto in modo da corrispondere il più possibile alla visione umana attraverso esperimenti empirici, e non seguendo la teoria della luce.

Questo voleva solo essere un esempio pratico di quanto affermato sopra. La scienza ha ancora molti punti bui nella sua descrizione dell’universo ed è nostro scopo formare degli esseri umani che forse un giorno potranno portare luce in quei punti bui. Questo lo possiamo ottenere unicamente insegnando la capacità di pensare autonomamente.

Un esempio di approccio goetheanistico

Nel programma di VII classe di fisica come proposto da Manfred von Mackensen, viene suggerito di introdurre con l’elettricità i concetti di tensione (Volt) e corrente (Ampère). Sono quindi indicati una serie di esperimenti che mettono in luce questi fenomeni.

Il modello di fisica classica prevede che la corrente elettrica sia il movimento di particelle subatomiche, gli elettroni, nel filo di rame. Vengono presentati dei disegni in cui gli elettroni, rappresentati come pallini, scorrono nel filo. Più tardi, al liceo e poi all’università, viene aggiunto che in realtà gli elettroni si muovono solo a 0.1 mm/s. Ma il campo elettrico si propaga comunque ad oltre 200’000 km/s. Sorge la domanda di come questo possa avvenire, e a domande di questo tipo anche all’università ricevevo risposte evasive. Ricordo lunghe discussioni dopo la lezione con il professore di fisica riguardo al modello con cui descriviamo i fenomeni elettrici, che a mio avviso non spiegava bene i fenomeni osservati. Il professore ha spesso convenuto con me che il modello andrebbe migliorato. Ma nel frattempo il modello si dava già per scontato e quindi l’importante era concentrarsi sulle formule, che funzionano. Altre volte la risposta rimandava alla fisica quantistica, che noi non studiavamo e quindi non potevamo capire.

Come maestro delle medie, io posso quindi spiegare il fenomeno come flusso di pallini. Quello che gli allievi non comprendono, lo rimando alle classi future. Al liceo arriva una nuova verità più dettagliata, che se non compresa rimanda all’università. All’università, se vi sono domande specifiche, si rimanda alla fisica quantistica che non si studia in tutte le facoltà.

In questo modo si presenta ai ragazzi un modello che non dà indicazioni percepibili del fenomeno che osservano, e a cui devono quindi credere. Alla fine, tranne forse il fisico quantistico, nessuno comprende bene il fenomeno. E questo vale sempre di più per tutte le materie. Solo l’esperto è qualificato per conoscere realmente la verità. Ma solo nella sua specializzazione.

Ricordo bene la prima lezione di fisica all’università. Il professore ha spiegato di come esista la fisica classica (Newton) e la fisica quantistica. Ha poi detto che la fisica quantistica ha negato più o meno tutto quanto dice la fisica classica. Ha concluso dicendo che noi avremmo studiato solo la fisica classica. Io ho quindi domandato perché. Ha risposto che il modello classico è un’ottima approssimazione.

Spesso i modelli fisici che si spiegano vengono confutati più avanti nello studio. Per il fisico quantistico l’orbita dell’elettrone in un atomo è descritta come “la probabilità che in un dato punto si manifesti un dato fenomeno energetico”. Questa definizione differisce non poco dal pallino che ruota intorno al nucleo dell’atomo. Tutti quelli che non fanno studi superiori, non hanno la possibilità di farsi un’idea chiara e veritiera di cosa sia la corrente elettrica. Fornendo ai ragazzi una rappresentazione come quella dei pallini (elettroni) che non sperimentano nella loro esperienza, li obbligo a dover credere in me. Dove si differenzia questo modo di procedere da un dogma? Oltretutto, gli esperti di oggi dicono qualcosa di molto diverso da quello che si insegna nelle classi medie e superiori!

Torniamo all’esperimento di VII classe. Creo una batteria con dei vasetti, delle piastre metalliche ed un elettrolita. Collego la batteria ad una lampadina. Avviene qualcosa quando il circuito di celle e lampadina viene “chiuso” da cavi di rame. La lampadina si accende e le lastre di metallo nell’acido della batteria si corrodono (questo si può osservare nelle placche che si sporcano le une e si puliscono le altre). Concludo che l’amperaggio rappresenta quindi il duplice fenomeno di corrosione di alcune placche della batteria e dell’accensione della lampadina. Altri esperimenti permettono poi di osservare ulteriori fenomeni ed in base alle relative conclusioni formulate in modo analogo, si espanderà il concetto di corrente. Di più non posso concludere.

Si può chiaramente obbiettare che in questo modo non riesco a seguire il programma, che fuori dalla scuola Waldorf impareranno diversamente, ecc. ecc.

Il punto è che nelle scienze dobbiamo insegnare il metodo scientifico. Fornendo modelli e teorie non comprovate dall’esperienza dei ragazzi, impostiamo l’insegnamento della scienza in maniera dogmatica. I ragazzi, quando giungono all’università, si sono abituati a non fare domande per crearsi una loro rappresentazione del fenomeno e accettano i modelli e le teorie date perché sono abituati così dalle classi medie (e forse prima). Ho potuto personalmente constatare questo fatto all’università.

Penso che ogni scienziato converrà che in teoria questo è esattamente l’opposto del vero scopo dell’insegnamento della scienza.

Il vantaggio maggiore di un insegnamento fenomenologico sta’ nel fatto che attraverso l’esperimento, il ragazzo crea da solo una rappresentazione di un pezzo di realtà. Insieme al docente poi si arricchisce questa rappresentazione con considerazioni, riflessioni ed esempi. La rielaborazione dell’esperimento insegna inoltre un metodo di pensare. In questo modo, anche tutti quegli allievi che non vorranno studiare meccanica quantistica, avranno una rappresentazione del fenomeno, nel nostro esempio, della corrente elettrica.

Aggiungo come nota personale che sono diversi gli esempi a mia conoscenza di allievi steineriani dotati per le scienze che hanno compiuto con successo studi superiori. Questo approccio non penalizza quindi lo studente.

Analisi della creazione di una teoria

Onde mettere ulteriormente in evidenza il fatto che vi è ancora molto da esplorare e che i modelli attuali non sono necessariamente definitivi e completi, ho fatto l’analisi di una teoria importante al giorno d’oggi: la teoria elettromagnetica.

Nel 1865 James Clerk Maxwell pone le basi matematiche per la descrizione delle onde elettromagnetiche. Egli raccoglie in una formulazione matematica le osservazioni che erano state fatte. Il fenomeno viene descritto da 20 equazioni differenziali a 20 variabili. Le equazioni fanno utilizzo di un sistema numerico chiamato quaternioni che estende i numeri complessi. Va specificato che lo sviluppo di queste equazioni partiva da una teoria che includeva ancora l’esistenza dell’etere nello spazio quale medium in cui le onde elettromagnetiche si propagano.

Nel 1884 un altro fisico, Oliver Heaviside riformula 12 delle 20 equazioni di Maxwell in 4 equazioni vettoriali a 2 incognite, eliminando 8 equazioni perché ritiene che descrivono fenomeni arbitrari. Queste 4 equazioni sono ancora oggi chiamate Equazioni di Maxwell, anche se sono una derivazione solo parziale del suo lavoro. Queste equazioni fanno parte delle fondamenta delle teorie di elettrodinamica classica, ottica classica e dei circuiti elettrici (si usa il termine “classico” perché oggi ci sono anche le teorie quantistica e relativistica).

Nel 1887 poi, gli scienziati Albert Michelson e Edward Morley fanno un esperimento che viene considerato la prova definitiva dell’inesistenza dell’etere.

Vi sono altri che sostengono che le teorie di Einstein formulate in seguito mostrano come gli esperimenti di Michelson e Morley non dimostrino nulla. Sono però una minoranza.

Oggi utilizziamo le equazioni di Maxwell che derivano da un lavoro originale molto più ampio e complesso e che partiva da un presupposto (l’esistenza dell’etere) che poi in seguito è stato confutato. Persone molto più esperte di me in fisica di questo genere, ritengono che con l’eliminazione da parte di Heaviside di 8 equazioni dall’originale formulazione di Maxwell, si siano eliminati tutta una serie di potenziali fenomeni dalla possibilità di essere osservati e compresi nella loro natura[5]. L’eliminazione dell’esistenza dell’etere dal modello elettromagnetico intacca uno dei concetti filosofici vigenti quando è nata la formulazione originale di Maxwell.

Senza esprimere giudizi in merito alla validità delle equazioni e delle teorie, questo processo di creazione di una teoria appare per lo meno un poco confuso.

Condizioni simili le incontriamo anche in altre discipline della conoscenza scientifica. In paleontologia ogni nuovo ritrovamento di fossili può modificare parti della teoria complessiva.

Non si critica qui la legittimità di affinare la teoria con l’apparire di nuove prove, ma la convinzione, precedente alla nuova prova, che la teoria fosse completa e definitiva.

Questo si distingue dal giusto rigore scientifico in quanto ogni nuova prova andrebbe analizzata e valutata senza preconcetti. Si ammette oggi che certe teorie non spiegano tutto, o che non sono definitive, ma non si valutano positivamente nuove prove che non si inseriscono direttamente nelle teorie esistenti.

Se uno scienziato si presenta con esperimenti ripetibili che mostrano fenomeni non contemplati dalla teoria, deve fornire anche una teoria alternativa (già questo è discutibile perché un fenomeno ripetibile rimane un fatto anche se non spiegato). Se la teoria che lo scienziato fornisce si discosta troppo dalla teoria ufficiale, la prova viene semplicemente dimenticata o considerata falsa.

In questa situazione di confusione, il goetheanismo ci viene in grande aiuto. Finché le nostre conclusioni si limitano a quanto osserviamo, non possiamo sbagliare. Ma nel frattempo i ragazzi imparano un metodo veramente scientifico.

Con questi esempi non voglio dire che le teorie vigenti oggi siano tutte sbagliate e non debbano essere insegnate.

Appare comunque chiaro che non sono definitive nella maggior parte dei campi della scienza.

La cautela nel presentare queste teorie quali verità è quindi d’obbligo.

Non ho fatto troppi pensieri sulle classi XI e XII, ma penso che sicuramente fino alla VIII classe non si debbano insegnare teorie che non possano essere direttamente derivate dall’esperienza dell’allievo. Se poi nelle classi alte si vogliono introdurre teorie ufficiali non direttamente derivabili dalla percezione, vanno per lo meno inquadrate chiaramente quali teorie e modelli matematici e non come fatti definitivi e verità assolute. Questo è particolarmente importante per quelle teorie che si scontrano direttamente con la realtà percepita (per esempio mondo grigio in teoria, mondo colorato nell’esperienza).

Lo scopo della scienza

Ritengo appropriato in questa sede indagare anche le domande più profondo sulla reale importanza di quello che, in quanto insegnanti di scienze, facciamo. Faccio quindi ora una corta analisi storica sull’origine dell’atteggiamento interiore che oggi definiamo scienza.

Storicamente osserviamo che circa 500 anni fa nasce un nuovo tipo di pensiero. Intorno al 15° e 16° secolo c’è un rapido aumento del numero di ricerche e di scoperte in molti ambiti scientifici. L’approccio scientifico si impone lentamente quale responsabile della descrizione del mondo fisico. Ma per diversi secoli ancora, la Chiesa rimane un importante riferimento per le questioni umane e spirituali (psicologiche). I consigli regali che si occupavano di valutare le proposte dei grandi esploratori del 16° secolo erano composti da scienziati ed ecclesiastici. Newton riteneva di aver descritto matematicamente alcuni elementi del cosmo, ma è sempre partito dall’idea che vi fosse un creatore che determinava le leggi da lui scoperte. Recentemente è inoltre stato scoperto che Newton si interessava all’alchimia. Darwin sembra aver faticato ad abbandonare l’idea di Dio quale creatore delle leggi naturali da lui teorizzate e descritte. Molti contesti delle scienze naturali hanno escluso storicamente la ricerca delle cause prime di un fenomeno dal loro ambito di competenza.

In passato le cause prime erano competenza della religione. Col tempo, l’evoluzione scientifica ha eliminato le spiegazioni religiose dalla descrizione del mondo, senza che la ricerca nelle cause prime venisse a far parte a pieno titolo delle competenze delle diverse discipline scientifiche. In taluni ambiti le cause prime sono state attribuite al caso o al caos (termini che, tra l’altro, sono anagrammi). Diverse discipline scientifiche rimangono comunque ancora oggi “scienze descrittive”, un’impostazione valida fintanto che le cause prime vengono attribuite a Dio, ma scientificamente poco corretta da quando Dio non viene più contemplato.

Questo appare evidente in biologia, in cui si descrivono alla perfezione tutti i processi viventi nel minimo dettaglio, ma non si sa’ ancora rispondere alla domanda “Cos’è la vita?”. Che la domanda non abbia risposta lo vediamo nel fatto che non si è ancora riusciti a creare un essere vivente partendo dagli elementi base di cui è composto (carbonio, ossigeno, idrogeno, azoto, ecc.).

In fisica abbiamo diversi modelli per descrivere i fenomeni (modello classico, modello quantico, modello relativistico), ma il concetto di base di “energia” viene utilizzato ovunque senza avere una spiegazione completa. Si dà per scontato che l’energia esista come in biologia si dà per scontato che la vita esista. Vengono investite grandi risorse in applicazioni pratiche, ma il fenomeno nella sua interezza non è compreso e interessa poco.

Ci si basa su teorie che sono state sviluppate da scienziati che credevano in Dio come causa prima di tutto il manifesto, ma nel frattempo Dio non è più contemplato o è stato sostituito dal caso o dal caos.

Con questo non voglio dire che bisogna necessariamente reintrodurre Dio quale creatore di tutto quanto, ma, se si vuole essere veramente scientifici, non si può lasciare senza risposta domande fondamentali quali “Cos’è la vita” e “cos’è l’energia”.

***

Ci si chiede a questo punto a giusta ragione se esiste un modello scientifico alternativo a quello attualmente in vigore. Negli ultimi 20 anni il mio percorso di ricerca mi ha portato a studiare approfonditamente il lavoro di diversi scienziati, conosciuti e sconosciuti, su cui darò ora un po’ di informazioni. La seguente rassegna non viene presentata onde fornire materiale da portare a lezione, ma vuole stimolare il docente a ricercare anche al di fuori dei canali educativi ufficiali sempre con lo scopo finale di migliorare le sue conoscenze.

Dr. Karl Ludwig von Reichenbach (1788-1869)

Karl Ludwig von Reichenbach fu un famoso chimico, geologo, industriale e filosofo principalmente noto per la scoperta di diverse sostanze chimiche in uso ancora oggi quali la paraffina, il fenolo e altre.

Nel 1839 Reichenbach si ritirò dall’industria per concentrarsi sullo studio del sistema nervoso umano. Studiò malati di neurastenia, sonnambulismo, isteria e fobia confermando precedenti osservazioni che mostravano come queste patologie erano influenzate dalla luna. Ne concluse che questo tipo di malattie tendevano a manifestarsi in persone che definì “particolarmente sensibili”. Con questo tipo di persone fece numerosi esperimenti documentati.

Se una di queste persone sensibili restava al buio per un po’ di tempo e poi osservava per esempio un cristallo, riportava di vedere un “energia” blu all’apice ed un “energia” giallo-rossa alla base. Lo stesso veniva osservato in una grande quantità di altri oggetti ed esseri viventi, come magneti, piante, animali e uomo. Le persone sensibili percepivano queste due energie come piacevole-fresco per l’energia blu, irritante-caldo per l’energia gialla. Reichenbach le definì “Energia Odica Negativa” quella blu, “Energia Odica Positiva” quella gialla.

Scoprì che i poli magnetici della terra sono collegati a questa energia, che gli esseri umani hanno sempre un’alternanza di queste energie tra sinistra destra, sopra e sotto, davanti e dietro.

Spesso questa energia si manifestava in collegamento ad un’attività magnetica o elettrica, ma, secondo Reichenbach, non si trattava di una forma di una di queste due energie, altrimenti non sarebbe stata osservata su di un cristallo o un essere vivente. Ne concluse che è piuttosto l’energia Odica che determina la manifestazione di elettricità e magnetismo.

Wilhelm Reich (1897-1957)

Scienziato di origine austroungarica vissuto nella prima metà del 20° secolo che, dopo aver studiato psicologia, lavorò con Freud diventandone allievo ed assistente. Si allontanò dall’idea di Freud sviluppando una sua teoria che vedeva le cause di molte malattie psicologiche in uno squilibrio di flussi energetici all’interno del corpo e della pulsazione della vita in collegamento anche all’energia sessuale[6]. Continuò le sue ricerche sull’origine della vita scoprendo che in un vegetale in macerazione si poteva osservare la formazione di piccole bollicine blu (che chiamò bioni) che poi si organizzavano in gruppi fino a creare un vero e proprio protozoo.

Questa osservazione era in contrasto con la teoria ufficiale che riteneva che i protozoi si sviluppano da un germe atmosferico che si ferma in un ambiente favorevole.

Da questi esperimenti ne nacquero altri fino a portare Reich alla conclusione che i bioni sono bolle di energia (che chiamò energia orgonica) e che questa energia è presente ovunque nell’atmosfera. Cercò allora di isolarla per studiarla meglio, e ideò una sorta di gabbia di Faraday modificata dove questa energia poteva venire accumulata. Misurò una differenza di temperatura all’interno di questi accumulatori e vide che questa energia poteva venire osservata stando per un certo periodo al buio dentro un accumulatore. La descrive come “nube” blu-viola con piccoli brillamenti. Provò allora a mettere delle cavie malate negli accumulatori constatando che c’era una buona percentuale di guarigione. Lo stesso si verificava sull’uomo, dove riuscì a guarire anche alcuni casi di cancro allo stadio di metastasi. In generale, questa energia sembrava essere in grado di guarire un’infinita quantità di disturbi[7].

Reich proseguì nelle sue ricerche fino alla morte sviluppando altri interessanti strumenti che non è possibile illustrare in questa sede.

Al giorno d’oggi l’orgonomia (nome che Reich diede alla sua scienza) esiste ancora in America ed in Europa dove vi sono varie istituzioni che insegnano e portano avanti le ricerche nello studio di questa energia (vedi ACO, OBRL). Il direttore dell’OBRL, James DeMeo, ha fatto una tesi di laurea sull’utilizzo di strumenti orgonici.

Ho personalmente riprodotto alcuni strumenti di Reich che utilizzo proficuamente da 20 anni.

 

Altri

Nikola Tesla (1856-1943)

Scienziato parzialmente dimenticato malgrado abbia inventato il sistema a corrente alternata che utilizziamo in tutto il mondo ancora oggi. La parte meno conosciuta del suo lavoro include sistemi per la trasmissione di corrente elettrica senza l’utilizzo di cavi, e molto altro ancora.

Royal Raymond Rife (1888-1971)

Realizzò microscopi che permettevano di osservare materia vivente ad ingrandimenti maggiori di quanto fosse possibile ai suoi tempi. Sosteneva inoltre di riuscire ad uccidere microbi attraverso l’uso di frequenze elettromagnetiche.

Georges Lakhovsky (1869-1942)

Sviluppò strumenti diffusi negli ospedali europei prima della seconda guerra mondiale con cui venivano curate malattie attraverso l’utilizzo di frequenze elettromagnetiche.

Giuseppe Calligaris (1876-1944)

Studiò la relazione tra zone cutanee del corpo e organi interni arrivando a definire mappe che ricordano molto i meridiani della medicina cinese.

William Horatio Bates (1860-1931)

Sviluppò metodi di cura delle disfunzioni visive (miopia, presbiopia, ipermetropia, ecc.). Vi sono numerose testimonianze di miglioramenti e guarigioni complete, anche da parte di altri che portarono e portano avanti ancora oggi il suo lavoro.

John Ernst Worrell Keely (1837-1898), inventore.

Viktor Schauberger (1885-1958), inventore.

Thomas Bearden (vivente), fisico quantistico.

Dr. Ing. Konstantin Meyl (vivente), fisico.

Roberto Maglione (vivente), ingegnere. Ha ricercato e pratica l’orgonomia.

Dr. Harold Hillman, (1930-2016) neurologo. Ha mostrato attraverso considerazioni logiche e multidisciplinari sulle tecniche di elaborazione dei tessuti che tutta una serie di organuli cellulari riconosciuti esistere da quando sono stati osservati col microscopio elettronico non sono scientificamente comprovati.

Questa è solo una parte degli scienziati a me noti che, partendo da una formazione accademica, ha scoperto e studiato indipendentemente fenomeni riproducibili la cui realtà è ignorata dall’istituzione scientifica. La ragione per cui ho esposto questa lista di scienziati è che l’insieme dei fenomeni che descrivono e le relative teorie indicano la direzione verso una teoria più unitaria della realtà e in molti casi danno conferme sperimentali alle indicazioni di Rudolf Steiner sull’etere.

Senza entrare nei dettagli di queste teorie alternative che non sono tema di questo scritto, aggiungo che vi sono numerose prove scientifiche per cui la teoria dell’etere appare essere un modello valido per descrivere una vasta gamma di fenomeni. Questo fatto è stato riconosciuto in tempi diversi da scienziati noti o famosi. Includo alcune loro citazioni.

James Clerk Maxwell, 1873:

“In diverse parti di questo trattato è stato fatto un tentativo per spiegare i fenomeni elettromagnetici attraversa l’azione meccanica trasmessa da un corpo ad un altro tramite un medium che occupa lo spazio tra di loro. Anche la teoria ondulatoria della luce assume l’esistenza di un medium. Dobbiamo mostrare che le proprietà del medium elettromagnetico sono identiche a quelle del medium della luce.” [8]

Albert Einstein, 1894-1895:

“La velocità di un’onda è proporzionale alla radice quadrata delle forze elastiche che causano la sua propagazione, e inversamente proporzionale alla massa dell’etere messo in movimento da queste forze.” [9]

Albert Einstein, 1920:

“Possiamo dire che secondo la relatività generale, lo spazio è dotato di qualità fisiche; in questo senso esiste un etere. Secondo la relatività generale lo spazio senza un etere non è pensabile; questo perché in uno spazio del genere non solo non ci potrebbe essere propagazione della luce, ma pure non ci sarebbe la possibilità di esistenza di standard quali lo spazio ed il tempo (righello e orologio), neppure quindi intervalli di spazio-tempo in senso fisico. Ma questo etere non può essere pensato come dotato di qualità caratteristiche dei mezzi ponderabili, come consistente di parti che possono essere seguite nel tempo. L’idea di movimento non può esservi applicata.” [10]

Paul Dirac, 1951:

“La conoscenza della fisica è avanzata molto dal 1905, soprattutto dall’arrivo della meccanica quantica, e la situazione [riguardo la plausibilità dell’etere] è nuovamente cambiata. Se si esamina la domanda alla luce della conoscenza di oggi, si trova che l’etere non è più escluso dalla relatività, e vi sono buone ragioni oggi per postulare un etere…….. Abbiamo adesso la velocità in tutti i punti dello spazio-tempo, che ha un ruolo fondamentale nell’elettrodinamica. È naturale considerarla come la velocità di qualcosa di reale. Per questo, con la nuova teoria dell’elettrodinamica [vuoto riempito di particelle virtuali] siamo abbastanza costretti ad avere un etere.”

Alexander Markovich Polyakov, 1987:

“Le particelle elementari che esistono in natura assomigliano molto all’eccitazione di un medium complesso (etere).” [11]

Gli obbiettivi dell’insegnamento delle scienze

Fino a qualche secolo fa la verità era monopolio della chiesa. Quando una persona aveva un problema morale, psicologico o di altro tipo si riferiva spesso al prete di paese che forniva pratiche per la risoluzione del problema. Era dato per scontato che il prete fosse la persona più colta e che quindi era in grado di aiutare la persona. La persona in questione aveva piena fiducia nel prete. Non avendo la possibilità di formarsi essendo spesso analfabeta, doveva credere ad occhi chiusi a quanto il prete diceva.

Con l’avvento dello spirito scientifico, l’uomo ha lentamente cominciato a cercare da solo le risposte a molte domande. Come già detto in precedenza, la scienza si è gradualmente sostituita alla chiesa nel ruolo di descrittore del mondo fisico. Questa sostituzione si è lentamente espansa anche negli ambiti superiori dell’esperienza umana (sentimenti, pensieri) ed oggi non vi è praticamente più alcun dialogo tra scienziati ed ecclesiastici. Si occupano semplicemente di cose diverse. L’uno guarda all’altro come ad un “credente” perché crede in un’entità superiore responsabile della creazione, l’altro guarda al primo come ad un “illuso” che pensa di non avere più bisogno di un’entità superiore (Dio) che ha creato il tutto. Lo scisma non è magari sempre così marcato, ma le due posizioni, se polarizzate al loro estremo, possono essere descritte in questo modo.

Nell’ultimo secolo poi lo sviluppo scientifico-tecnologico è stato così rapido che si è ritenuto sempre meno necessario ripercorrere a livello educativo quanto l’uomo ha scoperto in modo scientifico negli ultimi cinque secoli.

In poche parole, se analizziamo il modo in cui vengono portate per esempio la matematica e la fisica nelle scuole odierne, ci rendiamo conto che in realtà l’atteggiamento interiore che viene di fatto trasmesso agli allievi è sempre ancora quello religioso. Si procede usualmente nel seguente modo. In fisica, si descrive un problema, nei migliore dei casi viene anche forse raccontato di chi si è occupato di questo problema (ma non sempre), si presenta il distillato del lavoro dello scienziato (la formula generale), e poi si danno una gran quantità di esercizi onde permettere all’allievo di interiorizzare la formula ed imparare ad applicarla.

Nella matematica si procede in maniera analoga. Si parte generalmente sempre prima dalla formula generale, in alcuni casi si fornisce un esercizio risolto, e poi si danno paginate di esercizi da risolvere in classe o a casa.

Il risultato finale di una pratica di questo tipo portata avanti a livello educativo per tutta la gioventù dell’essere umano però è, a mio vedere, disastroso. Questo perché di fatto, non fornendo quasi mai al ragazzo la possibilità di derivare la formula generale da un processo sperimentale-percettivo, lo educo a credere. A chi? Allo scienziato di turno che ha sviluppato quella formula, o all’intera istituzione scientifica.

Detto in modo molto crudo: seppure si è abbandonato Dio e la chiesa quali detentori della verità, con questo modo di procedere si è semplicemente cambiato il Dio, che è diventato lo scienziato o l’istituzione scientifica. Ma l’atteggiamento interiore che si insegna è sempre ancora lo stesso. Si esprime al ragazzo il seguente pensiero: non credere a Dio, non esiste, credi nella scienza.

Senza entrare in polemiche inutili, questa pratica è a mio avviso la causa delle condizioni attuali del mondo. Quando ho educato per tutta la gioventù l’essere umano a credere nella scienza, questo crederà a tutte le persone e le istituzioni che in qualche modo hanno un ruolo di ufficialità. Quindi alle università, al governo, alle corporation, ecc., anche quando quanto affermato è in palese contrasto con l’esperienza vissuta. Ma questa, proprio per il modo di procedere nell’insegnamento, non è parte integrante e rilevante del vissuto dell’individuo e non è parametro di verifica.

Questo è anche ovvio: l’uomo non ha imparato a pensare in maniera indipendente, non ha imparato ad avere fiducia nella propria capacità di pensare. In questo modo è manipolabile tanto quanto lo era nel medioevo.

Ciò che invece vogliamo tentare di fare noi nell’insegnamento delle scienze è proprio l’opposto, vogliamo insegnare a pensare in modo autonomo e vogliamo che i giovani uomini che vengono da noi ad imparare acquisiscano grande fiducia nella loro capacità di pensare, lo strumento più potente dato in dotazione all’essere umano.

Invito chi non fosse convinto di questa affermazione ad alzare lo sguardo ed osservare l’attività umana intorno a sé. Vedrà edifici, strade, vie ferroviarie, forse dei grattacieli, fabbriche, fattorie, centrali elettriche, dighe, automobili, aerei, ecc. In ultima analisi, il frutto di cosa sono tutte queste realizzazioni fisiche? Sono tutti pensieri materializzati dall’uomo. Nessun animale è in grado di fare ciò, solo l’uomo ne è in grado.

Come è stato elegantemente espresso dal Dr. Harold Hillman nel suo libro “The Living Cell” (1980):

La logica era un’importante materia introduttiva in molti rami delle scienze naturali e fisiche, ma è stata in gran parte abbandonata dai programmi, almeno in Gran Bretagna. Siamo continuamente disturbati dall’incapacità di molti lavoratori professionisti di distinguere tra scoperte, supposizioni, speculazioni, ecc. L’importanza della logica non può essere esagerata perché il valore fondamentale di un esperimento per far progredire la conoscenza dipende dal grado in cui ogni presupposto importante, implicito nel suo uso, è valido, specialmente l’ipotesi più debole. I risultati di qualsiasi esperimento che contiene anche un solo importante presupposto ingiustificato, illogico o confutato, dovrebbero essere ignorati se hanno un ruolo cruciale nella conclusione.

Ma come riusciamo a promuovere questo atteggiamento interiore di fiducia nel proprio pensare? La risposta è abbastanza semplice. Ripercorrendo almeno in parte quanto è stato fatto dagli scienziati negli ultimi secoli e imparando il loro modo di procedere.

Chiarirò questo punto con un paio di esempi. Heinrich Hertz, lo scopritore delle onde elettromagnetiche, osservò il seguente fenomeno fisico-elettrico[12]: se una spira di rame aperta si trovava nelle vicinanze di un Rocchetto di Ruhmkorff (generatore di scintille), talvolta si manifestavano delle scintille tra le due estremità aperte della spira. Cominciò quindi un lungo e tedioso lavoro di mappatura dei luoghi e degli orientamenti della spira in cui la scintilla era maggiore (la distanza tra le estremità della spira era regolabile) producendo in questo modo “mappe” e grafici di vario genere. Dopodiché procedette nella derivazione della legge di comportamento di questo “campo” elettromagnetico.

Riconosciamo in questo processo di ricerca 3 fasi distinte:

  1. Viene osservato un fenomeno (la scintilla nella spira in prossimità del rocchetto di Ruhmkorff)
  2. Viene caratterizzato il fenomeno (mappando e creando grafici del comportamento specifico del fenomeno)
  3. Viene definita la legge di comportamento del fenomeno

Questo modo di procedere è esattamente quello proposto in questa pubblicazione poco più avanti. Abbiamo infatti:

  1. Osservazione del fenomeno (Percezione)
  2. Caratterizzazione del fenomeno (Rappresentazione)
  3. Definizione della legge (Concetto)

Un altro caso esemplare di questo atteggiamento viene presentato da Roberto della Marmora nel libro “Viaggio in Sardegna, volume II, Antichità”.

Il libro è stato pubblicato nel 1840, quindi molto tempo prima dell’avvento della scienza conformata. In questo senso, mostra molto chiaramente come l’atteggiamento scientifico in passato fosse ben definito, rigoroso e onesto.

Roberto della Marmora era un generale piemontese che per tanti anni fu stanziato in Sardegna (allora occupata dai Savoia). In quegli anni si dedicò allo studio di ogni aspetto della terra sarda, da quello geografico, agli aspetti culturali, geologici, naturalistici e archeologici. Il risultato di questo lavoro sono stati diversi volumi in cui vengono descritte le sue scoperte e osservazioni.

Nel volume sopraccitato, “Viaggio in Sardegna, volume II”, Della Marmora si occupa dei siti archeologici sardi.

Nello specifico, osserviamo come Della Marmora procede nel capitolo sui nuraghi sardi (sorta di torri antichissime, spesso complesse a più lobi, di cui la Sardegna è letteralmente cosparsa).

Consiglio a tutti di leggere almeno le prime 10 righe per osservare il suo modo di procedere. Per ogni nuraghe che Della Marmora ha visitato, viene inizialmente fornita una descrizione della sua visita e di tutte le osservazioni fatte sul luogo.

Troviamo poi dirimpetto la seguente pagina.

Abbiamo quindi un disegno artistico, e uno o più disegni tecnici, con pianta del nuraghe, orientamento, e talvolta sezioni. Questi due passaggi vengono illustrati per un gran numero di nuraghi. Alla fine del capitolo sui nuraghi troviamo poi il seguente sotto capitolo.

Vengono quindi esposte tutte le opinioni espresse da un gran numero di ricercatori che si sono occupati dei nuraghi sardi. Questo capitolo si compone di diverse pagine, non solo di quella qui riportata per illustrare questa modalità di procedere. Alla fine di questo sotto capitolo, Della Marmora espone anche le sue opinioni. Di fatto, Della Marmora non giunge ad una conclusione definitiva. Anche l’utilizzo del termine “opinioni” a mio avviso è di estrema onestà scientifica. Come si è già detto, se nello studio di un dato fenomeno non sono in grado di dire di più, prendo consapevolezza di avere raggiunto un limite alla mia conoscenza del fenomeno, e mi limito a dire ciò che è direttamente derivabile dall’osservazione. Qualsiasi ipotesi o speculazione viene dal Della Marmora giustamente catalogata quale opinione. L’ostinata necessità di arrivare ad una teoria definitiva ed esauriente non era prassi nei primi secoli di sviluppo del pensare scientifico.

Abbiamo quindi anche in questo caso tre specifiche attività in sequenza:

  1. Descrizione della visita al nuraghe (Percezione)
  2. Disegno artistico e disegni tecnici (Rappresentazione)
  3. Esposizione di opinioni sulle possibili spiegazioni (Concetto)

Attraverso il sistematico procedere in questo modo, insegniamo ai giovani uomini ad acquisire fiducia nella propria capacità pensante e di fatto gli permettiamo di esercitare la loro capacità di pensare. Come in tutte le cose, questa diventerà una capacità acquisita ed il giovane uomo, quando sarà grande, proverà a comprendere realmente quanto osserva intorno a sé e non sarà disposto ad accettare senza fare domande quanto gli viene portato dagli “esperti”.

A differenza di questo modo di procedere, il metodo d’insegnamento più diffuso al giorno d’oggi inverte questa sequenza e tralascia spesso l’elemento più importante, quello percettivo. Abbiamo infatti:

  1. Fornitura della formula generale (Concetto)
  2. Esercitazioni (Rappresentazione)

Ribadisco che quest’ultimo modo di procedere, di fatto crea tanti “credenti” nel Dio Scienza. Questo perché la formula, se non è relazionata ad una percezione, deve essere creduta. È irrilevante il fatto che sia corretta e che funzioni. Ciò che è rilevante nel processo formativo dei giovani uomini è il processo stesso, di meno il risultato. La formula si dimentica rapidamente, ma proprio per questo vi sono i formulari solitamente ammessi negli esami. Ciò che però rimane è il risultato dell’esercizio regolare del pensare scientifico. La quasi totale mancanza dell’elemento percettivo poi elimina la spinta interiore, il desiderio di comprendere un fenomeno. L’allievo così educato si domanda spesso: ma perché stiamo imparando questa cosa? La domanda è più che lecita considerando che non ha avuto esperienza del fenomeno. Se invece il fenomeno viene percepito, è più probabile che nasca la curiosità che spinge l’uomo-scienziato a voler comprendere quel pezzo di realtà. Immaginiamo che Hertz non avesse avuto percezione della scintilla nella spira. Avrebbe forse avuto la spinta interiore a voler comprendere il fenomeno facendo tutte le prove e le analisi che ha fatto? Non credo. Per i giovani uomini vale esattamente lo stesso.

Un altro semplice esempio porta ulteriore luce su questo fatto. Sono un suonatore di pianoforte e mi esercito per imparare un esercizio. Dopo averlo imparato alla perfezione, per un anno non lo suono più. È evidente che l’avrò parzialmente o completamente dimenticato. Ma l’abilità acquisita durante le esercitazioni rimarrà per sempre come un accrescimento delle mie capacità. Nella musica questa è la prassi, e vengono utilizzati brani specifici di ogni genere per esercitare le diverse abilità che lo strumento richiede. Analogamente nelle scienze, le varie materie possono essere viste come “brani di diverso genere” per esercitare le diverse sfumature della capacità di pensare.

Steiner ci fornisce un elemento importante in relazione a ciò. Non a caso ha chiamato la sua una “Scienza dello spirito”, nel senso che anche se il tema che trattava era lo spirito, il modo di procedere era di tipo scientifico. Sono dell’avviso che la vera grande novità introdotta dai primi scienziati 500 anni fa era il modo di pensare. Dobbiamo procedere, nei nostri pensieri, in modo scientifico, e dobbiamo insegnare questo modo di procedere in tutte le materie, con l’ovvio accento nelle materie scientifiche.

Steiner utilizza anche un altro termine indicativo ed importante: parla di “arte dell’educazione”. Nell’ambito di questa pubblicazione verranno dati diversi spunti sul come mettere in pratica quest’arte.

Riassumendo possiamo quindi dire: procediamo con atteggiamento scientifico nel nostro pensare, e procediamo in modo artistico nel nostro fare (lezione).

L’approccio goetheanistico qui proposto è in realtà abbastanza facile da mettere in pratica. L’ostacolo più grande sta proprio in noi docenti, spesso ossessionati dall’aspettativa di raggiungere in ogni ambito di insegnamento la legge finale e definiva che spiega tutto. Questo atteggiamento ossessivo è il frutto della mal-educazione che viene spesso impartita nelle scuole e nelle università. Il lavoro principale per il docente quindi riguarda proprio se stesso ed il suo modo di pensare. È auspicabile che quest’ultimo venga modificato nella direzione indicata in questa pubblicazione.

La filosofia della libertà

Vorrei in questa sede fare una corta digressione su di un elemento che ritengo di grande importanza nell’approcciarsi a Rudolf Steiner ed ai suoi scritti.

Rudolf Steiner, nell’immensità della sua produzione bibliografica, ha portato due impulsi i quali, malgrado siano strettamente correlati, sono comunque distinti.

Il primo impulso, il meno noto, è stato portato con le sue prime 4 opere, che elenco per chiarezza:

  • Introduzione agli scritti scientifici di Goethe (O.O.1)
  • Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo, con particolare riferimento a Schiller (O.O.2, contenuto in Saggi filosofici)
  • Verità e scienza – Proemio di una filosofia della libertà (O.O.3, contenuto in Saggi filosofici)
  • La filosofia della libertà (O.O.4)

In queste opere, e soprattutto nel loro coronamento con La Filosofia della libertà, Steiner ha applicato l’approccio usato da Goethe nei suoi studi scientifici, alla comprensione dell’essere umano e del pensare.

Con La filosofia della libertà Steiner è riuscito, tramite l’analisi goetheanistica dell’essere umano e del suo pensare, a presentare un vero e proprio percorso di iniziazione, come lui stesso lo definisce in seguito ne La scienza occulta nelle sue linee generali (pagina 159 nella versione dell’Editrice Antroposofica):

(La via che conduce al pensare libero dai sensi e che passa attraverso gli insegnamenti della scienza spirituale è assolutamente sicura. Ce ne è un’altra, ancora più sicura e più precisa, ma che, di fatto, è più difficile da seguire per molte persone. È quella che ho esposto nelle opere intitolate Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo e La filosofia della libertà. Queste opere mostrano dove il pensiero può arrivare, quando invece di legarsi alle impressioni provenienti dal mondo fisico, esso si concentra esclusivamente su se stesso. Il pensare puro lavora allora non più sul ricordo delle impressioni esteriori, ma come una entità viva in se stessa. Le opere in questione non contengono alcuna comunicazione proveniente dalla scienza spirituale. Ugualmente, esse mostrano che, attraverso il pensare puro, che lavora su se stesso, si possono avere delle comunicazioni su quello che sono il mondo, la vita e l’essere umano. Essi corrispondono ad una tappa intermedia molto importante tra la conoscenza del mondo sensibile e quella del mondo dello spirito. Essi mostrano quello che il pensiero può acquisire quando esso si eleva al di sopra della percezione esteriore senza purtuttavia impegnarsi nella ricerca spirituale. Chi lascia agire queste opere sulla sua anima intera si trova già nel mondo spirituale; ma quello gli si rivela come mondo del pensiero. Chi si sente capace di passare per questa tappa intermedia, segue una via sicura e può acquistarsi in tal modo, verso il mondo superiore, un sentimento che gli arrecherà i più bei frutti per l’intero avvenire).

La seconda via, quella più conosciuta e che passa attraverso l’esperienza chiaroveggente o attraverso un Maestro che abbia questo tipo di visione, viene presentata ampiamente nel resto dell’Opera Omnia di Rudolf Steiner. Rimando al libro Chakra, energia del cuore di Florin Lowndes in cui, a pagina 189, Lowndes dedica un intero capitolo a queste due vie.

Penso di poter esprimere l’opinione della maggioranza quando dico che La filosofia della libertà non è affatto un libro facile. Io stesso l’ho letto la prima volta quando avevo circa 20 anni dopo che avevo letto altre opere più “esoteriche” (come La scienza occulta), ed allora avevo capito poco. A confronto con le altre opere, in cui Steiner dava queste potenti immagini dei mondi superiori, dell’essenza spirituale dell’uomo e dell’universo, La filosofia della libertà mi sembrava un trattato filosofico di relativa importanza. È stato solo quando, intorno ai 35 anni, l’ho riletta con dentro di me le domande sul perché la lezione si strutturasse in modo tripartito, che ho cominciato a comprenderla nella sua fondamentale importanza. Dopo aver cominciato a comprenderla, ho poi constatato che tutta l’Opera Omnia di Steiner è profondamente compenetrato dai pensieri espressi in quell’opera, ma che non sono facilmente identificabili se La filosofia non è stata compresa. Nella sua autobiografia, Steiner stesso racconta di quanto sia stato importante quanto appreso nelle sue ricerche sugli studi di Goethe per ordinare in modo appropriato le percezioni chiaroveggenti che aveva.

La comprensione dei processi di pensiero che stanno alla base dell’essere umano mi ha poi permesso di strutturare con maggior cognizione di causa le tre parti della lezione.

Onde mettere in evidenza l’importanza cruciale che Steiner attribuiva a La Filosofia della libertà, includo ancora alcune citazioni.

In un breve ricordo di Karl Köller su August Ewerbeck, amico di Rudolf Steiner, viene riportato:

Quando all’inizio del ventesimo secolo Ewerbeck sentì che esistevano dei gruppi intimi nei quali Rudolf Steiner insegnava agli ammessi in modo particolare, chiese al maestro se poteva essere ammesso anche lui. Allora Rudolf Steiner diede una risposta stupefacente “Lei non ha bisogno di questo! Lei ha capito la mia Filosofia della Libertà!”

E Steiner stesso, nell’ O.O. 257 afferma:

Non si è tenuto conto del fatto che bisogna leggere La filosofia della libertà in modo diverso dagli altri libri. È questo il punto essenziale ed è quello che bisogna richiamare oggi nel modo più insistente, se non si vuole che l’evoluzione della Società Antroposofica resti al di qua dell’evoluzione dell’antroposofia. Perché in tal caso l’antroposofia, vista attraverso la Società Antroposofica, non potrà essere che totalmente incompresa dal mondo, cosa che genererà conflitti su conflitti.

Secondo Florin Lowndes, la via iniziatica de La filosofia della libertà sarebbe la via del futuro, della prossima era di evoluzione, mentre la via iniziatica esposta nelle numerose altre opere di Rudolf Steiner sarebbe un rinnovamento della via iniziatica dell’era di evoluzione precedente.

A questo aggiungo che vi è tutta una serie di problemi per una corretta comprensione delle opere di Rudolf Steiner.

Il primo è che la grande maggioranza delle sue opere deriva da stenografie non ricontrollate da Steiner e, spesso, di cui Steiner stesso ne aveva per lungo tempo vietata la pubblicazione. Questo si spiega facilmente nel fatto che molto di quanto diceva, soprattutto durante il periodo in cui collaborava con le società teosofiche, era indirizzato a studiosi di teosofia. Il linguaggio da lui utilizzato era quindi rivolto a persone “con cognizione di causa”, e non è ovvio che vengano comprese in modo corretto da un profano.

Il secondo problema è che le stenografie stesse potrebbero talvolta essere state comprese e riportate nei libri in modo errato. Mackensen stesso ha fatto verifiche di questo tipo su certi testi constatando che quanto riportato sui libri non corrispondeva completamente con le stenografie originali.

Il terzo problema è che la traduzione di molte opere dal tedesco all’italiano non è stata fatta bene. Se il traduttore non ha capito quanto Steiner aveva scritto o detto, la traduzione non può ovviamente essere buona. Questo porta ad ulteriori incomprensioni e malintesi.

In ultimo, vi sono termini che non possono essere tradotti in modo completo nella lingua italiana.

Alcuni esempi: in tutta l’opera di Steiner viene spesso utilizzato il termine Erkenntnis, che viene solitamente tradotto con Conoscenza. Ma in tedesco esistono altri due termini, Kenntnis e Wissen, il primo tradotto anche con Conoscenza ed il secondo propriamente tradotto con Sapere. Ma Erkenntnis ha la stessa radice di erkennen, verbo che significa riconoscere. Quindi, Erkenntnis sarebbe più propriamente tradotto con la sostantivazione del verbo riconoscere. La definizione “teoria della conoscenza”, se tradotta dal tedesco “Erkenntnis-Theorie” perde quel connotato di ri-conoscere, che significa che io già possiedo qualcosa dentro di me e che, nel contatto col mondo, lo ri-conosco anche nel mondo. In “teoria della conoscenza” abbiamo qualcosa che a me, personalmente, suona molto accademico, come un qualcosa che si trova unicamente al di fuori di me, mentre in tedesco viene creata una relazione tra me e ciò che è fuori di me.

Il termine tedesco Geist può essere tradotto sia come spirito che come mente, intelletto.

Il termine Gegenstand, spesso usato ne La filosofia della libertà, è una parola tedesca composta dai due termini gegen e stehen, che significato stare contro, stare di fronte. Viene però tradotto con l’unico termine associabile in italiano e che è oggetto. Ma in tedesco esiste anche la parola Objekt che significa la stessa cosa. Ci sarà una ragione specifica per cui Steiner ha usato il termine Gegenstand.

Non mi dilungo oltre su questo punto, ma volevo metterlo in evidenza. Da quando mi sono reso conto di queste difficoltà di traduzione, leggo Steiner unicamente in tedesco.

Concludo questo capitolo invitando caldamente chiunque sia seriamente interessato a comprendere a fondo l’Opera di Rudolf Steiner e chiunque sia interessato a comprendere l’approccio pedagogico-didattico da lui proposto di continuare a provare a rileggere La filosofia della libertà.

È mia profonda convinzione che molte risposte si trovano in quel volume.

La tripartizione nelle diverse materie

Forti di quanto fin qui presentato, in questo capitolo intendo quindi affrontare un discorso generale su quali attività fare nelle tre fasi nelle diverse materie scientifiche.

Esistono oggi diversi modi di interpretare le indicazioni di Rudolf Steiner in merito alla tripartizione della lezione. È mia opinione che alcune di queste pratiche derivino da interpretazioni errate di quanto Steiner ha scritto.

Onde portare luce su questo tema, includo per esteso l’articolo Sulla tripartizione della lezione d’epoca da me scritto alcuni anni fa in cui ho analizzato a fondo le varie tipologie di tripartizione e le loro basi pedagogiche.

***

Una rapida ricerca su internet con i termini “rhythmischer Teil” (parte ritmica) fornisce tutta una serie di risultati sulle pagine di presentazione di scuole Waldorf. Sulla pagina della scuola X, per esempio viene detto:

Indipendentemente dalla materia, la lezione mattutina si struttura in tre parti: parte ritmica, parte di apprendimento della materia, parte di racconto.

Sulla pagina della scuola Y leggiamo:

La parte ritmica si trova di regola all’inizio della lezione di epoca. In essa il docente conduce gli allievi in svariati esercizi linguistici, musicali e di movimento, adatti al rispettivo stadio di sviluppo dei bambini. Nelle elementari possono essere esercizi delle dita, canzoni e danze, nelle classi medie e superiori sono spesso recitazioni di poesie, canzoni adatte all’età, giochi di movimento ed esercizi. […] Nella parte di apprendimento viene trattato l’effettivo contenuto della lezione. […] Dopo il processo di inspirazione della parte di apprendimento, gli allievi si rallegrano di poter ascoltare rilassati alla parte di racconto come conclusione della lezione.

E ancora, sulla pagina web della scuola Z leggiamo:

Nelle classi elementari viene fatta una parte ritmica all’inizio della lezione di epoca con canzoni e altri elementi di linguaggio e artistici, che rinfrescano e vitalizzano i bambini. In queste classi la lezione di epoca si chiude con una storia relativa al tema dell’anno. Più si sale di classe, più diventano corte la parte ritmica e la parte di racconto e più va in primo piano la parte di apprendimento.

Questa tripartizione della lezione, strutturata in parte ritmica, parte di apprendimento e parte di racconto, appare essere quindi una pratica affermata e diffusa nelle scuole Waldorf tedesche.

Nel 2010, sulla pubblicazione del Goetheanum “Rundbrief Nr. 38 der Pädagogischen Sektion am Goetheanum” (Circolare Nr. 38 della sezione pedagogica del Goetheanum) è apparso un articolo di Christof Wiechert, allora responsabile della sezione pedagogica del Goetheanum, dal titolo: “Zur Frage der Dreiteiligkeit des Hauptunterrichtes” (Sulla questione della tripartizione della lezione di epoca), nella cui introduzione leggiamo:

Nel seguente articolo verrà esposto come la suddivisione classica della lezione di epoca dalla prima classe fino all’ottava classe in parte ritmica, parte di lavoro e parte di racconto plasmino i processi vitali di una classe in questo periodo del mattino. Questo plasmare è forte e viene considerato senza discussioni una delle caratteristiche essenziali delle scuole Waldorf. Verrà mostrato che per questa suddivisione non esiste alcun riferimento nelle esternazioni o nelle indicazioni di Steiner. Verrà inoltre mostrato come questa suddivisione sia di ostacolo al necessario fare ritmico ed artistico e che rappresenta un freno per i processi di apprendimento. Verrà anche mostrato come questa suddivisione della mattina contraddica parti importanti dell’antropologia. Per concludere verrà mostrato come gli allievi vengano giudicati nel loro comportamento sulla base di questa tripartizione.

E sulla terza pagina dell’articolo, Wiechert scrive:

In merito alla tripartizione della lezione d’epoca, non esiste alcun riferimento nel lavoro di Steiner, sia nelle conferenze che nel corpo delle discussioni. Questo non deve necessariamente essere il caso, se venisse sviluppato qualcosa di sensato. Il nuovo deve però poi essere comprensibile in relazione all’antropologia.

Non volendo entrare nei dettagli dell’articolo di Wiechert, mi limito a constatare che vi sono pratiche pedagogiche diffuse nelle scuole Waldorf che, come riportato da Wiechert, non sembrano avere alcuna base fondata sulle indicazioni fornite da Rudolf Steiner.

Dalle mie ricerche in merito, ritengo comunque che vi siano conferenze di Rudolf Steiner in cui lui parla di una tripartizione della lezione, anche se non viene definita esattamente in questi termini.

Nella conferenza del 14 giugno 1921 a Stoccarda[13] Steiner dice:

Prendiamo ad esempio l’insegnamento della fisica. Facciamo qualche esperimento col ragazzo. […] possiamo così dire: mentre sperimentiamo, viene coinvolto tutto l’uomo. […] Facendo dunque esperimenti, impegno tutto il ragazzo, ma lo sforzo è eccessivo. Poi svio l’attenzione dei ragazzi dagli apparecchi che ho usato e ripasso tutto. Mentre faccio appello al ricordo di quanto si è sperimentato direttamente, ripasso tutto. Quando si ripassa qualcosa, quando quasi lo si riassume, lo si passa in rassegna senza che vi sia l’osservazione, e ne risulta particolarmente vivificato il sistema ritmico. Dopo aver coinvolto il ragazzo nel suo complesso, ora mi appello al suo sistema ritmico e al suo sistema della testa, perché ricapitolando metto in azione anche la testa. Posso chiudere in tal modo la lezione. Prima ho messo in azione tutto il ragazzo, poi di più il sistema ritmico; infine l’alunno va a casa e più tardi dorme. Nel sonno, ciò che ho messo in azione prima in tutto il ragazzo, poi nel sistema ritmico, continua a vivere nelle membra, quando corpo astrale e io sono usciti.

Ora vogliamo osservare ciò che rimane nel letto e che fa risuonare quanto ho svolto col ragazzo: tutto quel che si è formato nel ragazzo nel suo complesso e quel che si è formato nel sistema ritmico fluisce per così dire nel sistema della testa. Se ne formano immagini nel sistema della testa. Il ragazzo se le trova pronte quando si desta il mattino seguente e viene a scuola. È proprio così: quando il giorno seguente tornano a scuola, i ragazzi hanno nella testa, senza saperlo, le immagini delle sperimentazioni che ho presentato ieri e che poi ho ripassato in immagini, e tutto è nella testa come un’immagine. Al mattino seguente ho in classe ragazzi che hanno in testa fotografie di quanto ho sperimentato ieri; i ragazzi vengono a scuola così.

Dunque all’indomani li posso far riflettere, far pensare su ciò che il giorno precedente ho sperimentato e poi ripetuto come un racconto, più per la fantasia; ora riconsidero il tutto. Qui vengo incontro al divenire coscienti delle immagini che devono diventare coscienti. Faccio dunque una lezione di fisica, faccio esperimenti, ripeto davanti ai ragazzi ciò che è accaduto; il giorno seguente svolgo i pensieri che portano il ragazzo a conoscere le leggi di quanto è avvenuto.

Già in questa descrizione e soprattutto nella frase conclusiva si possono riconoscere 3 fasi, ripartite su due giorni: faccio esperimenti, ripeto davanti ai ragazzi ciò che è accaduto, il giorno seguente svolgo pensieri su quanto è accaduto.

Steiner continua poi nella stessa conferenza:

Supponiamo che io dia una lezione di storia. […] Oggi racconto ai ragazzi i nudi fatti, quelli che avvengono sensibilmente nei luoghi e nel tempo. Questo afferra il ragazzo tutto, come il fare esperimenti, perché egli è obbligato a pensare spazialmente. […] Fatto questo, cerco di riferirmi un po’ alle persone che si sono presentate, o ad avvenimenti accaduti, non però raccontando realmente, ma incominciando a caratterizzare; guido così l’attenzione su ciò che prima ho presentato, ma caratterizzandolo un po’. Dopo queste due tappe prima impegnando tutto il ragazzo e poi, caratterizzando, impegnando la sua parte ritmica, lascio andare il ragazzo. Domani lo accolgo in classe, ed egli mi riporta nella testa le fotografie spirituali di quanto era stato fatto il giorno precedente. Gli vado incontro, considerando per esempio se Mitridate o Alcibiade fossero o no uomini onesti, dunque facendo considerazioni. Un giorno devo presentare più ciò che caratterizza obbiettivamente, il giorno seguente ciò che giudica e riflette; con questo agisco in modo che i tre sistemi dell’essere umano tripartito si connettano realmente nel giusto modo.

Anche in questo estratto si riconoscono tre fasi: oggi racconto ai ragazzi i nudi fatti, poi caratterizzo i fatti, il giorno dopo faccio considerazioni.

Nel capitolo “Lehr- und Lernprozesse” (Processi di insegnamento e apprendimento) del libro di Tobias Richter “Pädagogischer Auftrag und Unterrichtsziele – vom Lehrplan der Waldorfschule” (Compito pedagogico e obbiettivi di insegnamento del piano di studi della scuola Waldorf) leggiamo:

[…] In questo modo la metodica di insegnamento e apprendimento costruisce ogni processo sulla ritmica successione delle tre fasi riconoscere, comprendere e padroneggiare dei contenuti con:

  1. vivere, osservare, sperimentare
  2. ricordare, descrivere, caratterizzare, disegnare
  3. rielaborare, analizzare, astrarre, generalizzare (costruzione di teorie)

Si deve però tenere conto che la terza fase di “affermazione del contenuto di insegnamento ” non deve essere raggiunta all’interno della stessa ora di insegnamento.

Dopo il vivere (1.) e il descrivere (2.) viene inserita una pausa nella quale, anche attraverso la notte, diventa possibile prendere distanza da quanto accolto. Solo il giorno seguente si compie l’ultimo passo di apprendimento.

Appare evidente come Richter si sia basato certamente anche sulla conferenza citata per riconoscere queste 3 fasi della lezione suddivise in due giorni, con 1a e 2a fase il primo giorno e 3a fase il secondo giorno. Questa tripartizione differisce notevolmente da quella analizzata da Wiechert di cui si è parlato all’inizio dell’articolo. In quest’ultima le tre fasi si svolgono lo stesso giorno, mentre in quella portata da Richter le 3 fasi si svolgono su due giorni. Anche la definizione delle fasi differisce, infatti abbiamo:

  1. parte ritmica
  2. parte di apprendimento
  3. parte di racconto

in un caso, e:

  1. parte di sperimentazione
  2. parte di descrizione
  3. parte di rielaborazione (il giorno seguente)

nell’altro.

Che la prima modalità di tripartizione possa entrare in contraddizione con elementi dell’antropologia è già stato rilevato da Wiechert nel suo articolo sopra citato.

Si farà ora il tentativo di chiarire la seconda modalità di tripartizione della lezione di epoca.

L’analisi dei processi di apprendimento verrà fatta partendo da 3 esempi presi dall’esperienza di vita reale che ritengo che ogn’uno possa ripercorrere col pensiero e ritenere validi nella loro descrizione.

1. Mi trovo nella sala di aspetto di uno studio medico. Onde far passare il tempo, prendo in mano una rivista e comincio a sfogliarla senza particolare interesse. Le prime 4 pagine sono solo scritte, le passo quindi rapidamente finché, sulla quinta pagina c’è una fotografia che attira la mia attenzione. Rappresenta un paesaggio montuoso, con cielo azzurro, laghi alpini, foreste di conifere e cime innevate. Sorge in me la domanda su dove si trovi quel paesaggio, e quindi cerco la didascalia che fornisce alcune informazioni sul paesaggio, tra cui il luogo dove è stata scattata la fotografia.

2. Supponiamo di essere un produttore video dilettante che acquista una videocamera professionale. Apro la scatola, tiro fuori la videocamera, la prendo in mano e ne osservo ogni dettaglio percependone il peso, la maneggevolezza, il design. Se le batterie sono già cariche (cosa comune al giorno d’oggi), la accendo, verifico il funzionamento con un paio di riprese di prova e controllo le varie funzioni. Vi sono poi dei pulsanti e delle funzioni che non conosco. Prendo il manuale per l’uso, identifico il pulsante tramite il confronto con il disegnetto schematico dell’apparecchio sul manuale, e poi leggo i dettagli del pulsante o della funzione.

3. Sto facendo una passeggiata con un bambino di qualche anno che sta’ ancora imparando a parlare. Sul prato accanto al sentiero il bambino vede un asino (per la prima volta in vita). In precedenza aveva già visto un cavallo. Indica l’asino con la mano e mi dice “guarda, un piccolo cavallo”. Io lo correggo dicendogli che quello è un asino, che si distingue dal cavallo per le dimensioni, le orecchie, e così via.

Cosa accomuna questi tre esempi? Nel primo esempio la mia attenzione è stata attirata dalla foto. Nel secondo esempio prendo in mano la videocamera, la guardo, la provo. Nel terzo esempio, l’attenzione del bambino è stata attirata dall’asino. Vedere una foto, toccare, guardare, provare e vedere l’asino sono tutte percezioni. Generalmente, nel nostro processo di apprendimento, ci viene naturale partire dalle percezioni. Le percezioni stimolano il nostro interesse e la nostra osservazione, e laddove osserviamo qualcosa che non conosciamo, nasce la domanda. È molto più improbabile che, sfogliando la rivista, cominci già a leggere la prima pagina solo scritta, a meno che io non l’abbia comprata volontariamente perché tratta temi che mi interessano, piuttosto che per il fatto che il titolo sia particolarmente accattivante. Similmente, è poco probabile che appena acquistata la videocamera io cominci a leggere il manuale prima di averla tirata fuori dalla scatola, presa in mano e osservata un po’.

Questo processo viene elegantemente descritto da Rudolf Steiner nella sua opera La filosofia della libertà:[14]

Dobbiamo pensare ad un essere con intelligenza umana pienamente sviluppata che sorga dal nulla e si ponga di fronte al mondo. Ciò di cui egli si accorgerebbe, prima di mettere in attività il suo pensare, è il puro contenuto dell’osservazione. Il mondo gli mostrerebbe allora solo il semplice aggregato sconnesso di oggetti di sensazione: colori, suoni, sensazioni di pressione, di calore, di gusto, di olfatto; e poi sentimenti di piacere e di dispiacere. Tale aggregato è il contenuto della pura osservazione, priva di pensiero. Di fronte vi è il pensare che è pronto a sviluppare la sua attività, se trova un punto adatto di attacco. L’esperienza insegna presto che esso lo trova. Il pensare è in grado di tirare dei fili da un elemento di osservazione a un altro. Esso collega con questi elementi determinati concetti e li mette così in relazione fra loro.

Se ora rivalutiamo gli estratti di Steiner sulle lezioni di fisica e di storia, come pure le considerazioni di Richter sulla tripartizione della lezione, vediamo che la prima fase della lezione viene sempre descritta quale percezione di qualcosa di nuovo. Per la lezione di fisica Steiner parla di fare qualche esperimento col ragazzo, per la lezione di storia parla di raccontare ai ragazzi i nudi fatti e Richter, in relazione alla prima fase, parla di vivere, osservare, sperimentare.

Negli esempi descritti, una volta attirata l’attenzione e attivata l’osservazione, avviene immediatamente il secondo passo, si cerca di trovare un nesso tra la nuova percezione e quanto già si conosce. In altri termini, come espresso da Steiner nella Filosofia della libertà, si tenta di collegare quanto osservato con determinati concetti. Nel primo esempio, l’informazione di dove è stata scattata la foto mi permette di inserire, nella mia visione del mondo, l’immagine rappresentata. Nel secondo esempio, identificati i pulsanti di cui non conosco la funzione (identificazione solo possibile in conseguenza dell’osservazione), cerco sul manuale i concetti corrispondenti. Nel terzo esempio, il bambino, non appena vede l’asino, cerca dentro di sé un concetto corrispondente e lo trova in ciò che conosce e che più gli assomiglia, quindi nel concetto del cavallo.

Steiner descrive anche questo processo sempre nella Filosofia della libertà:[15]

Di fronte alla cosa esterna, per gli esseri pensanti sorge il concetto. Esso è ciò che della cosa riceviamo non dal di fuori, ma da dentro. La conoscenza[16] deve fornire il pareggio, deve riunire i due elementi, quello interiore e quello esterno.

La percezione non è quindi nulla di finito, di conchiuso, ma un lato della realtà totale. L’altro lato è il concetto. L’atto conoscitivo è la sintesi di percezione e concetto. La percezione e il concetto di una cosa formano quindi la cosa intera.

Qualcuno potrebbe obiettare che, nell’esempio della foto del paesaggio, il concetto l’ho cercato nella didascalia e non dentro di me. In realtà, se il nome del luogo indicato nella didascalia è a me completamente sconosciuto e non riesco a posizionarlo nella mia immagine interiore della mappa del mondo, il mio desiderio di conoscere il luogo rimane insoddisfatto. Analogamente, nel caso della videocamera, se il pulsante sconosciuto per il quale mi sono riferito al manuale fa una funzione di cui non ho mai sentito parlare, dovrò provarlo (quindi “percepirne l’azione”) per creare un nuovo concetto dentro di me sulla sua funzione.

Steiner dice che la realtà totale si compone di percezione e relativo concetto. Un semplice esempio può chiarire la validità di questa affermazione.

Mi trovo in pianura e guardo l’orizzonte intorno a me. Questa semplice percezione mi farebbe concludere che la terra è piatta. Ora salgo su di una montagna e constato che riesco a vedere più lontano. Per collegare queste due percezioni in modo che abbiano un senso, devo rifarmi al concetto (che possiedo già da altre osservazioni) di curvatura e che rivela la realtà della curvatura della superficie terrestre. Il collegamento delle varie percezioni con i relativi concetti e dei concetti tra di loro viene fatto dal pensare, non mi è dato immediatamente dalla percezione. È quindi giusto affermare che la realtà si compone da percezioni e concetti insieme.

Ad ogni percezione però si associa un altro elemento. Se il bambino, dopo che ha visto l’asino, chiude gli occhi, è ancora in grado di vedere davanti a sé l’immagine dell’asino. Steiner descrive quest’osservazione nel seguente modo:[17]

Il soggetto della mia percezione rimane per me percepibile anche quando la tavola, che ora mi sta davanti, sarà scomparsa dal campo della mia osservazione. L’osservazione della tavola ha suscitato in me una modificazione, anch’essa permanente. Io conservo la capacità di riprodurre in seguito l’immagine della tavola. La capacità di riprodurre un’immagine rimane legata a me. La psicologia chiama questa immagine rappresentazione mnemonica. Ma solo essa può con ragione venir chiamata rappresentazione della tavola: corrisponde infatti alla modificazione percepibile del mio stato per effetto della presenza della tavola nel mio campo visivo. […] La rappresentazione è quindi una percezione soggettiva, contrapposta alla percezione oggettiva che avviene in presenza dell’oggetto nell’orizzonte della percezione.

E caratterizza la rappresentazione nel capitolo VI:

Nel momento in cui una percezione compare all’orizzonte della mia osservazione, anche il pensare si muove in me. Una parte del mio sistema di pensieri, una determinata intuizione, un concetto si collega con la percezione. Che cosa rimane quando poi la percezione scompare dal mio campo visivo? La mia intuizione in rapporto con la determinata percezione che si era formata nel momento del percepire. La vivezza con la quale in seguito potrò ripropormi quel rapporto, dipende poi dal modo in cui funziona il mio organismo spirituale e corporeo. La rappresentazione non è altro che un’intuizione riferita a una determinata percezione, un concetto che una volta si è legato con una percezione e che è rimasto connesso con quella. Il mio concetto di un leone non è formato in base alle mie percezioni del leone. È invece dovuta alla percezione la mia rappresentazione del leone. Io posso far conoscere il concetto di un leone a qualcuno che non ne abbia mai visto uno. Non mi riuscirà di trasmettergliene una rappresentazione vivente, senza la sua percezione diretta.

La rappresentazione è cioè un concetto individualizzato. […] La rappresentazione sta dunque fra percezione e concetto. È il concetto determinato, riferentesi alla percezione.

Steiner conclude quindi:

La realtà ci si presenta come percezione e concetto, l’immagine soggettiva della realtà come rappresentazione.

Cosa si intende qui con immagine soggettiva della realtà e concetto individualizzato? Cercherò di chiarirlo tramite uno degli esempi dati sopra. Torniamo alla fotografia del paesaggio montuoso sulla rivista (esempio 1). L’immagine interiore (la rappresentazione) della stessa percezione sarà molto diversa se ad osservare la fotografia sarà un Tuareg del Sahara piuttosto che un geologo. Il geologo, per esempio, collegherà all’immagine subito il concetto di “monte calcareo”, o “monte granitico”, concetti probabilmente sconosciuti al Tuareg. Il geologo potrebbe anche collegarvi il concetto di “erosione glaciale”, ed una serie di altri concetti. Il Tuareg non arriverà probabilmente neppure ad osservare che la valle rappresentata nel paesaggio montuoso ha una forma a U, tipica dei paesaggi glaciali, proprio perché non associa a questa osservazione alcun concetto. Una terza persona potrebbe addirittura ricevere dall’immagine un richiamo ad un luogo personalmente visitato, e dire “assomiglia molto ai monti X”. Ogni persona inserisce la stessa percezione in un contesto, in un’immagine interiore del mondo, che proprio per le differenti esperienze che ogni uomo ha fatto, è personalizzata, individualizzata.

A tutto ciò va inoltre aggiunto un sentimento o un’emozione scaturita dalla percezione che viene a far parte della rappresentazione individuale e che può variare molto da persona a persona. Il ragno che disgusterà una ragazza sarà ammirato con interesse e curiosità dall’entomologo (colui che studia gli insetti). In questo senso, Steiner aggiunge:

Posso chiamare mia esperienza la somma di ciò su cui posso formare rappresentazioni. Chi avrà il maggior numero di concetti individualizzati avrà la più ricca esperienza. Chi manchi di ogni capacità d’intuizione non è idoneo ad acquistare esperienza. Gli sfuggono sempre gli oggetti dal suo campo visivo, perché gli mancano i concetti che deve mettere in relazione con gli oggetti stessi. Altrettanto poco potrà accumulare esperienza un uomo con una ben sviluppata capacità di pensare, ma con un’attività di percezione mal funzionante a causa di rozzi strumenti sensori. Egli potrà sì procurarsi in qualche modo concetti, ma alle sue intuizioni mancherà il rapporto vivente con determinate cose. Il viaggiatore privo di pensieri e il dotto che vive in astratti sistemi di concetti sono ugualmente incapaci di acquisire una ricca esperienza.

Per ritornare al tema del presente articolo, andiamo alla fase 2 della lezione come descritta da Steiner. Nell’esempio della fisica, parla di fare appello al ricordo di quanto si è sperimentato direttamente, nell’esempio della lezione di storia parla di riferirsi alle persone o agli avvenimenti accaduti, caratterizzandoli. Richter, in relazione alla fase 2, parla di ricordare, descrivere, caratterizzare, disegnare. Vi è un chiaro riferimento a lavorare sulla rappresentazione di quanto sperimentato. Ricordando un esperimento, mi posso appellare solo a quanto è rimasto in me quale rappresentazione del vissuto, perché la percezione ha avuto termine. Ricordando, mi posso solo basare su quella che Steiner definisce la modificazione suscitata in me dalla percezione. Caratterizzando, porto l’attenzione degli allievi su dettagli che forse, proprio perché non possiedono ancora concetti relativi, sono sfuggiti alla loro osservazione. Nell’esempio numero 1, potrei riportare l’attenzione dei ragazzi al ricordo del fatto che la valle dell’immagine montuosa è a forma di U, o che i boschi erano composti di piante “appuntite” (conifere), o che le cime innevate avevano zone dove la neve sembrava più spessa (ghiacciai). Vi sono innumerevoli osservazioni che si possono fare quando si ha una percezione, e non è scontato che gli allievi le abbiano fatte tutte con coscienza.

Compito di questa seconda fase è quindi quello di esercitare la descrizione del ricordo di quanto si è percepito o sperimentato, di esercitare la capacità di farsi una rappresentazione. Richter, in questo senso aggiunge anche il disegnare, che per la grande maggioranza delle rappresentazioni è idoneo perché queste tendono per l’appunto ad essere “rappresentazioni di immagini”. Esistono comunque anche rappresentazioni che non si ricordano come immagini. Il gusto di un frutto ne è un esempio, come il tuono durante un temporale. Queste ultime possono essere viste come rappresentazioni, perché possiedono un carattere personale. Il gusto può piacere o non piacere, come pure il rumore del tuono. Il gusto di una mela, una volta percepito, può essere riconosciuto e discriminato dal gusto di una pera. Questo è difficilmente fattibile solo conoscendo l’elemento concettuale del gusto di una mela (dolce, un po’ aspro, ecc.). Come descrive Steiner nell’esempio del leone, posso trasmettere ad un’altra persona il concetto di gusto di una mela, ma non potrò trasmetterne una rappresentazione vivente, senza che vi sia la sua percezione diretta. Chi non avrà mai mangiato una mela ma conosce il concetto di mela, faticherà molto al primo assaggio a riconoscerla come mela unicamente dal gusto.

Negli esempi illustrati fino a qui si è sempre partiti dall’idea che i concetti relativi a quanto osservato siano già conosciuti (non sarebbe stato altrimenti possibile portare esempi, se avessi dovuto usare concetti sconosciuti). Appare però chiaro che nell’esempio 1 una persona potrebbe anche non avere già il concetto di montagna, come nell’esempio 2 qualcuno potrebbe non avere ancora il concetto di videocamera. Questa è la condizione che naturalmente si incontra quando si insegna a bambini e ragazzi. Essi vengono a scuola appunto per imparare nuove cose e conoscere nuovi concetti.

Nell’esempio numero 3 del bambino che vede l’asino ma lo riconosce come un cavallo, abbiamo la spiegazione dell’adulto che introduce al bambino il nuovo concetto di asino. Questo nuovo concetto viene quindi a far parte dei concetti del bambino, legandosi alla rappresentazione dell’asino e distinguendolo in questo modo da quello di cavallo. Nell’esempio numero 1, sulla foto del paesaggio montuoso, una persona che veda quell’immagine ma che non abbia mai visto ne sentito parlare di una montagna in vita sua, sarebbe alla ricerca di un concetto a lei nuovo che rispecchi la percezione avuta (questo è esemplificato dalla semplice domanda “Cos’è quello?”). Questa condizione di ricerca esiste malgrado il fatto che questa persona abbia avuto la percezione e se ne sia creata una rappresentazione. Se ripensiamo al caso del Tuareg che vede la foto, può aver notato la valle ad U come pure gli ispessimenti della neve, ma non averne un relativo concetto.

Vi è quindi una terza fase nel processo conoscitivo, quella di ricerca dei concetti relativi a quanto di nuovo è stato percepito.

Steiner descrive questa terza fase nel modo seguente: il giorno seguente svolgo i pensieri che portano il ragazzo a conoscere le leggi di quanto è avvenuto e il giorno seguente (devo presentare) ciò che giudica e riflette. Richter definisce la terza fase come quella in cui si rielabora, analizza, astrae, generalizza. Scopo di questa terza fase è quindi di permettere al ragazzo attraverso ragionamenti, collegamenti concettuali, analisi, e così via, di riconoscere i giusti concetti relativi a quanto sperimentato.

Riassumendo quanto presentato, suggeriamo quindi che il naturale processo conoscitivo riconoscibile dall’analisi dei processi di apprendimento dell’essere umano e dettagliatamente esposto da Rudolf Steiner nella sua Filosofia della libertà in:

  1. Percezione
  2. Rappresentazione
  3. Concetto

abbia fornito le basi filosofico-fenomenologiche della tripartizione della lezione come descritta da Steiner e ripresa da Richter in:

  1. vivere, osservare, sperimentare
  2. ricordare, descrivere, caratterizzare, disegnare
  3. rielaborare, analizzare, astrarre, generalizzare (costruzione di teorie)

Tra questi elementi riteniamo di riconoscere le seguenti relazioni dirette:

  1. Vivere, osservare, sperimentare –> Percezione
  2. Ricordare, descrivere, caratterizzare, disegnare –> Rappresentazione
  3. Rielaborare, analizzare, astrarre, generalizzare –> Concetto

Si potrebbe portare l’obiezione che la descrizione che fornisce Steiner riguardo alla prima fase della lezione di storia non possa essere caratterizzata come percezione. In quel passaggio Steiner dice:

Oggi racconto ai ragazzi i nudi fatti, quelli che avvengono sensibilmente nei luoghi e nel tempo.

Se partiamo dall’idea che il docente racconti tutto quanto è conosciuto dall’essere umano riguardo ad uno specifico evento storico, da questa descrizione dei fatti il ragazzo creerà un’immagine interiore, una rappresentazione. Steiner infatti aggiunge:

Questo afferra il ragazzo tutto, come il fare esperimenti, perché egli è obbligato a pensare spazialmente.

Va inoltre specificato che il termine “percezione” utilizzato in italiano non è l’esatta traduzione del termine tedesco Wahrnehmung. Questa è una parola composta da altre due parole, la parola “Wahr” e la parola “nehmen”, che significano rispettivamente “vero” e “prendere”, quindi “prendere vero”, o “prendere per vero”. Questo concetto può quindi essere applicato in maniera più vasta di quanto non si possa fare con la parola italiana “percezione”. Io posso “prendere per vero” anche un’emozione o un pensiero, mentre diventa alquanto dissonante dire in italiano che si “percepisce” un emozione o un pensiero.

Steiner specifica questa definizione nel capitolo IV della Filosofia della libertà quando dice:

Anche del mio sentimento io prendo conoscenza per il fatto che per me esso diventa percezione (in tedesco Wahrnehmung). E il modo in cui prendiamo conoscenza del nostro pensare mediante l’osservazione è tale che possiamo chiamare percezione (in tedesco Wahrnehmung) anche il pensare, nel suo primo rivelarsi alla nostra coscienza.

Un racconto di fatti realmente accaduti può quindi essere una percezione nel senso di essere “preso per vero” dal ragazzo.

Aggiungo una riflessione personale sul suggerimento di fare la terza fase il secondo giorno, e non il giorno stesso in cui ci si è occupati della percezione e della rappresentazione. Come abbiamo descritto sopra, quando la rappresentazione sorge in conseguenza di una percezione, a questa rappresentazione sono associate spesso anche qualità emotive e di sentimento che sono individuali.

L’esperienza insegna che emozioni e sentimenti forti possono ostacolare la valutazione oggettiva di un fenomeno.

L’esperienza insegna anche che una notte di sonno tende ad attenuare emozioni forti.

In questo senso, il giorno dopo una certa esperienza, si è più facilmente in grado di analizzare l’evento liberi dalle emozioni che ha scatenato in noi, permettendoci una maggiore oggettività. Questo è in linea con l’espressione usata da Richter di prendere distanza da quanto accolto.

Per concludere, vorrei fare ancora una considerazione sulla prima modalità di tripartizione presentata in questo scritto, quella che viene descritta con le tre fasi:

  1. parte ritmica
  2. parte di apprendimento
  3. parte di racconto

Dobbiamo veramente abbandonarla nella sua totalità? Nei miei studi sulla documentazione antroposofica, ho trovato un passaggio del libro di E.A. Karl Stockmeyer “Angaben Rudolf Steiners für den Waldorfschulunterricht” (Indicazione di Rudolf Steiner per l’insegnamento nelle scuole Waldorf) in cui Stockmeyer riferisce:

Intorno al 10 giugno 1919 Rudolf Steiner mi diede indicazioni relative alla costruzione del piano orario e sul nuovo ordinamento che lo avrebbe dovuto sostituire in certe materie. Da tre fino a quattro giorni, disse, avrebbe dovuto esserci ogni mattina, durante la prima ora, il canto, negli altri giorni il disegno. Dopodiché si doveva fare per esempio calcolo, quindi una materia che si tratta nelle epoche, e poi religione. La lezione non avrebbe dovuto incominciare prima delle 8 di mattina, e terminare intorno alle 12. […] Nel discorso del 10 giugno appena menzionato, Rudolf Steiner la inserisce (la lezione di epoca) per la prima volta nel piano giornaliero. Ma non si trova all’inizio della giornata, prima abbiamo qualcosa di artistico.

Secondo quanto riporta Stockmeyer, c’è stato almeno un caso in cui Steiner ha suggerito di cominciare la giornata con un’attività artistica. Quello che però è fondamentale da comprendere è che la parte artistica non è parte costitutiva della tripartizione della lezione di epoca, ma una parte aggiunta prima di cominciare l’effettiva lezione di epoca.

***

Quindi, stabilito che la tripartizione “tradizionalmente” messa in pratica, anche secondo Wiechert non solo non ha basi antropologiche ma potrebbe addirittura essere controproducente, estendo ora la panoramica sulla tripartizione proposta in questo volume.

Anche se nella pratica, a grandi linee il seminario di formazione di Kassel (Con Ollendorff, Mackensen e Guttenhöfer) propone un modo di procedere simile a quanto da me derivato dalla Filosofia della libertà, da colloqui e letture di documentazione di questi autori risulta che il loro punto di partenza è stata un’ulteriore esternazione di Steiner, nello specifico, inclusa nel volume Arte dell’educazione I Antropologia (O.O.293), pagina 132 dell’Editrice Antroposofica:

In ogni attività logica, vale a dire pensante e conoscitiva, abbiamo sempre tre elementi. Prima di tutto abbiamo continuamente ciò che denominiamo “Conclusione”. Nella vita comune il pensare si estrinseca nel linguaggio e, se analizzate la struttura del linguaggio, scoprirete che, parlando, formate continuamente delle conclusioni. Quest’attività del concludere è la più cosciente dell’uomo; l’uomo non potrebbe esprimersi mediante il linguaggio se non attraverso continue conclusioni, non capirebbe ciò che altri gli dice se non potesse continuamente accogliere in sé delle conclusioni. La logica scolastica spezzetta di solito i sillogismi; ma così facendo falsa quelli che si presentano nella vita ordinaria. La logica scolastica non tiene conto del fatto che noi traiamo già una conclusione ogni volta che mettiamo a fuoco un oggetto isolato. Andiamo in un serraglio e vediamo un leone. Che cosa facciamo per prima cosa, percependo il leone? Portiamo a coscienza ciò che vediamo nel leone, e solo facendo così ci orientiamo nelle nostre percezioni rispetto a quell’animale. Prima di recarci nel serraglio, abbiamo appreso nella vita che esseri simili a quello che abbiamo ora dinanzi a noi sono “animali”. Ciò che in tal modo abbiamo appreso dalla vita lo portiamo già con noi quando entriamo nel serraglio. Poi guardiamo il leone e, constatando che anch’esso fa ciò che abbiamo appreso sugli animali, colleghiamo tale constatazione con quanto abbiamo portato con noi dalla conoscenza della vita; formiamo allora il giudizio: il leone è un animale. Solo dopo che ci siamo formati questo giudizio, comprendiamo il singolo concetto “leone”. La prima cosa che eseguiamo è una conclusione, la seconda è un giudizio, l’ultima a cui perveniamo nella vita è un concetto. Naturalmente noi non sappiamo di compiere continuamente tale attività, ma se non la compissimo, non condurremmo una vita cosciente atta a farci intendere, attraverso il linguaggio, con altri esseri umani.

Abbiamo quindi, come tripartizione del processo pensante e conoscitivo i seguenti tre elementi:

  1. Conclusione (Schluss in tedesco)
  2. Giudizio (Urteil in tedesco)
  3. Concetto (Begriff in tedesco)

Resta ora da stabilire se e in che modo si collegano questi tre elementi con quelli derivati dalla Filosofia della libertà e che ripeto per chiarezza:

  1. Percezione
  2. Rappresentazione
  3. Concetto

Per il terzo elemento non sembrano esserci difficoltà, si parla in entrambi i casi di Concetto.

Il primo elemento, Conclusione, è già un po’ più difficile da comprendere. Infatti, ho parlato con diverse persone del seminario di Kassel, e per ora nessuno è stato in grado di spiegarmi esaurientemente come mai associamo un’attività scolastica di sperimentazione, scoperta del nuovo, con il concetto di Conclusione. È vero che, come ci dice Steiner, ad ogni percezioni si associa direttamente la inconsapevole ricerca interiore di un qualcosa di conosciuto, e che si conclude quindi, come nel suo esempio, con l’affermazione “Questo è un leone”, ma io tutt’ora fatico ad associare il termine Conclusione con la percezione di qualcosa di nuovo. Constato semplicemente che questo è quanto avviene per prima cosa nel pensiero semi-cosciente dell’essere umano quando si trova di fronte ad un oggetto.

Ancora più arduo da comprendere è il rapporto tra Giudizio e Rappresentazione. Ho cercato ormai per anni di trovare questa relazione, ma tutt’ora non ho certezze.

Un aiuto ci deriva dall’associazione di questi tre elementi con gli elementi costitutivi dell’essere umano, come proposto da Mackensen nell’articolo Fare, sentire, pensare, Una tripartizione dell’insegnamento.

Associando queste tre diverse formulazione dello stesso processo, otteniamo:

  1. Percezione, Conclusione, Fare
  2. Rappresentazione, Giudizio, Sentire
  3. Concetto, Concetto, Pensare

In questa associazione, constatiamo che il giudizio avviene in qualche modo in associazione all’elemento del sentire, del sentimento.

In ogni caso, personalmente ritengo più utile basarmi sulla tripartizione come da me compresa dalla Filosofia della libertà, e che ritengo dia indicazioni più chiare per la comprensione di che cosa vada fatto a lezione nelle tre fasi.

Presento ora l’applicazione pratica di questa tripartizione nelle varie materie scientifiche.

Fisica

Per chiarezza e facilità comincerò con le epoche di fisica.

Per la natura stessa della fisica, è abbastanza facile comprendere che nella 1a fase, quella percettiva, vogliamo evidentemente dare una percezione. Uno o più esperimenti sono quindi la cosa ovvia da fare in questa materia in relazione alla Percezione. Vorrei in questa sede aggiungere alcune osservazioni. Ho conosciuto docenti che, per esempio, quando portavano il materiale necessario per l’esperimento, facevano innanzitutto scrivere a tutti gli allievi i nomi dei materiali usati. Personalmente non sono favorevole a questo modo di procedere. Vogliamo che la percezione sia il più pura possibile, e cominciare a fare una lista di materiali scritti corrisponde ad una iniziale razionalizzazione. Ritengo che durante gli esperimenti i ragazzi non debbano neppure prendere appunti e anzi, onde poter fare poi bene la seconda fase, questo non andrebbe proprio fatto. Ulteriore motivazione a favore del non prendere appunti deriva dall’analisi cognitiva di cosa succede quando una persona prende appunti. Deve osservare, deve dare un senso a quanto osservato (associare nomi ad oggetti, associare verbi a processi, ecc.) e deve poi esprimerlo con parole proprie ed in forma scritta. Questa sequenza di operazione ha le seguenti conseguenze:

  • l’allievo sta’ già di fatto facendo le 3 fasi (percezione, rappresentazione, concetto) rapidamente ed in sequenza ripetitiva e continua
  • mentre è intento a scrivere non può seguire l’esperimento e perde quindi parti dell’esperienza

In un seminario a Kassel, il professore eseguiva interi esperimenti lunghi anche 10-15 minuti senza dire una parola. Convengo con questo approccio. Lo ripeto: vogliamo tenere la percezione il più pura possibile. Negli anni a seguire vi saranno poi esperimento che, per la loro stessa natura, necessiteranno magari di qualche piccola indicazione del docente, ma per le classi VI, VII e VIII non è praticamente mai necessario.

Una cosa di fondamentale importanza è che nelle materie in cui si fanno esperimenti il docente provi sempre tutti gli esperimenti il giorno prima, anche se li ha già fatti più volte. È importante anche per il docente rifare l’esperienza, e possono sempre manifestarsi effetti non visti in passato. Questo può accadere con particolare evidenza in quegli esperimenti che hanno un collegamento con la temperatura. Se l’anno precedente ho fatto l’esperimento in maggio e quest’anno lo faccio in gennaio, vi possono essere delle differenze sostanziali dovute alla temperatura dell’aula. Ripetendo l’esperimento il docente “rientra” di nuovo nella materia. Il giorno dell’esperimento coi ragazzi avrà chiaro ogni gesto ed ogni movimento che deve fare, e l’esperimento sarà più fluido. Malgrado tutte le precauzioni, qualche volta accade che un esperimento fallisca. Anche in questo caso non bisogna andare in panico. Per sua natura, un esperimento può fallire, e si può cogliere l’occasione per mettere in evidenza questo fatto agli allievi. Inoltre, i ragionamenti di ricerca delle cause del fallimento potrebbero portare ad interessanti riflessioni e considerazioni.

Una volta terminato l’esperimento, il materiale utilizzato andrebbe portato via. In un laboratorio ben attrezzato questo può essere fatto facilmente se l’esperimento è stato montato direttamente su di un carrello mobile. Alternativamente, si prende ciò che è stato utilizzato oggetto per oggetto e lo si porta fuori dalla classe o nello stanzino dei materiali annesso all’aula di fisica. Se nessuna di queste opzioni è fattibile, si può semplicemente ricoprire il materiale con un telo. Come vedremo, questo è fondamentale per la seconda fase.

La fase percettiva dovrebbe raramente superare i 30 minuti, e sarebbe meglio se in media rimanesse intorno ai 20-25 minuti. Per quei (rari) esperimenti che richiedono tempo maggiore, si può pensare di occupare i ragazzi con la compilazione del quaderno se vi sono tempi morti durante i quali non accade molto, oppure si può pensare di far partire l’esperimento lungo e, mentre questo procede da solo, si fa qualche altro esperimento pertinente col tema che si sta’ trattando.

È ovvio che l’ideale sarebbe far fare esperimenti anche ai ragazzi stessi. Questo in molti casi è però difficile da fare (si necessita tanto tempo e tanto materiale) e, per gli esperimenti più complessi, richiederebbe comunque una lunga spiegazione di partenza che andrebbe a rovinare la purezza della percezione come pure l’eventuale sorpresa che alcuni esperimenti determinano. È comunque sempre auspicabile cercare volontari che vogliano aiutare il docente nell’esecuzione degli esperimenti, prendendo le dovute precauzioni se l’esperimento porta con sé qualche rischio.

Nella seconda fase (rappresentazione), che segue temporalmente direttamente alla prima, arriva il momento di prendere penna e quaderno degli esercizi. Si chiede ad un volontario di riassumere, a memoria, l’esecuzione dell’esperimento. Il riassunto può essere fatto anche con l’aiuto di più allievi. Il docente corregge e completa il riassunto, fornisce il nome scrivendolo all’evenienza anche alla lavagna di eventuali materiali ignoti ai ragazzi e, soprattutto nelle classi piccole, può aiutare gli allievi formulando frasi pertinenti. Durante tutto questo processo, i ragazzi sono stimolati a prendere appunti. Attenzione: vi è spesso la tendenza a cadere in un dettato, cosa che non deve assolutamente accadere! In VI classe ho fatto buona esperienza scrivendo io stesso, a punti, la sequenza di operazioni eseguite durante l’esperimento.

Prendere appunti non è una cosa affatto ovvia per le ragioni indicate sopra (si devono cognitivamente fare tutto il tempo le tre fasi e si perdono parti della lezione mentre si scrive) ed è quindi giusto, nelle basse medie, mostrare ai ragazzi il metodo. Sulla lavagna in VI potrebbe apparire scritto, per esempio:

  • preso trapano a manovella con punta di legno
  • Giovanni l’ha usato su di un pezzo di legno
  • Dopo poco è salito fumo
  • C’era odore di legno bruciato
  • La punta di legno è divenuta nera
  • La punta era calda al tatto

La sera a casa i ragazzi poi faranno una relazione discorsiva sull’esperimento o sugli esperimenti.

Dopo il riassunto dell’esperimento, si fa il disegno. Il disegno è a mio avviso molto importante, e ne parlo più approfonditamente nel prossimo capitolo. In questo momento voglio solo dire che ritengo importante che i disegni degli esperimenti vengano fatti dal docente alla lavagna nel modo migliore possibile mentre i ragazzi lavorano anche loro al quaderno.

Con il disegno si chiude la lezione di epoca per quel giorno.

Il giorno dopo, faccio riassumere ad un allievo gli esperimenti del giorno precedente a parole (aprendo la lavagna se non ne hanno memoria chiara) e poi chiedo ad ogn’uno di passare 5 minuti a rileggersi le proprie relazioni in silenzio, e fare eventuali correzioni. Il criterio che espongo è il seguente: “se non lo capisci tu che l’hai scritto, come farà qualcuno d’altro?” Si fanno poi leggere alcuni allievi, correggendo a parole eventuali errori, e si stimolano gli altri allievi a correggere eventuali errori, imprecisioni o dimenticanze.

A questo punto devo parlare un attimo di una questione ancora ampiamente discussa, e cioè se è necessario correggere giornalmente tutti i testi di tutti gli allievi prima che vengano riportati sul quaderno di bella copia. Personalmente, faccio questa attività unicamente nella prima settimana della prima epoca di VI classe e da lì in avanti solo su richiesta di allievi che hanno insicurezze e dubbi su quanto hanno scritto. Do la disponibilità ma non lo faccio sistematicamente. Manfred von Mackensen mi ha confermato che anche lui non correggeva tutti i resoconti degli esperimenti, ed un altro professore di Kassel, in un seminario, ci ha raccontato che addirittura lui faceva leggere gli esperimenti il giorno dopo solo a quegli allievi che sapeva che facevano dei testi generalmente completi e ben formulati. Questo per risparmiare tempo all’inizio della lezione. Un altro professore di Kassel che insegna chimica addirittura non faceva neppure fare un quaderno di bella copia ai ragazzi nella prima epoca di chimica di VII. Il quaderno di brutta copia era il “diario” di laboratorio dell’epoca, con tutti gli appunti, i testi, i disegni, i ragionamenti, le eventuali correzioni. Il quaderno di bella copia è un extra in questo tipo di materie. Riallacciandomi a quanto detto sopra sul ripercorrere il lavoro degli scienziati degli ultimi 500 anni, chi di questi durante le sue ricerche ricopiava tutto due volte per fare la bella copia? I loro appunti, riflessioni, osservazioni, disegni e schizzi erano il loro quaderno. Le cose venivano messe “in bella copia” eventualmente solo quando il materiale e le osservazioni erano sufficienti per la stesura di un libro, un articolo o un trattato. Anche col quaderno vale la regola: il quaderno serve mentre lo si fa, non come libro di testo (come viene spesso ribadito in certi circoli). In 12 anni di scuola Steiner, non ho mai una volta ripreso in mano un quaderno di epoca per ricordare un’informazione! E non c’era internet allora.

Detto ciò, non ritengo comunque sbagliata la pratica di fare un bel quaderno di epoca, ma volevo solo mettere in evidenza quale sia la reale utilità di un quaderno in questo tipo di materie.

Le motivazioni che mi sono dato negli anni per cui non è necessario correggere sistematicamente tutte le relazioni sono le seguenti:

  • Innanzitutto, quello che vogliamo stimolare negli allievi sono processi e non risultati assoluti e conformati. In questo senso, la stesura della relazione serve al ragazzo mentre la sta’ facendo, perché deve richiamare alla memoria (dalla sua rappresentazione) quanto visto e sperimentato. È in quel momento che l’azione di fare la relazione sta’ lavorando sullo sviluppo del ragazzo.
  • Come già ampiamente esposto sopra, il nostro obbiettivo è di permettere ai giovani uomini di acquisire fiducia nella propria capacità di pensare. Se ogni loro pensiero ed azione deve essere corretta da un’autorità superiore (il docente), non si sta’ promuovendo questo processo.
  • Il lavoro di correzione è estremamente oneroso in termini di tempo. Meglio dedicare quel tempo a pianificare begli esperimenti e ragionamenti sensati da fare a lezione.
  • La relazione corretta dal maestro viene ricopiata dalla maggior parte degli allievi sul quaderno in uno stato di totale passività, parola per parola, ed ho grossi dubbi che le correzioni determinino realmente un miglioramento nelle capacità di scrivere dell’allievo.
  • Stiamo facendo lezione di fisica, non di italiano.

Anche in questo caso calza l’esempio della musica. L’apprendimento del brano avviene principalmente tramite la ripetizione dello stesso, anche se non ogni ripetizione è perfetta. È chiaro che nella musica sarebbe assurdo pretendere di “correggere” l’esecuzione già eseguita. Ritengo che si possa ragionare in modo analogo per quanto riguarda la stesura delle relazioni.

Per tutte queste ragioni, negli anni sono diventato molto tollerante sulla quantità di impegno che i singoli allievi investono nella varie attività. È evidente che tutti devono fare tutte le relazioni e tutti i disegni, ma se un allievo dedica più tempo alle relazioni e fa disegni meno buoni, lo stimolo benevolmente a migliorarli ma non in maniera impositiva (a meno che non sia chiaro che non vi è impegno alcuno). Ognuno ha le sue caratteristiche personali ed è giusto tenerne conto. Capitano allievi che per esempio riescono a fare tutti i disegni e tutte le relazioni nella seconda fase della lezione a scuola. Se i disegni e le relazioni sono decenti, per me va bene così.

Dopo la rapida ripetizione di quanto visto il giorno prima con gli esperimenti, si giunge alla terza fase, quella del Concetto.

Mackensen faceva una importante distinzione tra concetti aperti e concetti chiusi e che vorrei ora rapidamente riassumere come da me intesi.

Un concetto chiuso è un ragionamento che arriva ad un suo coronamento, per esempio, con la determinazione di una regola o legge incontrovertibile. Quando in VII classe trattiamo la legge della leva, facciamo il seguente esperimento: abbiamo una sorta di bilancia la quale sui due bracci possiede una serie di ganci equispaziati. Nell’eseguire l’esperimento, ho spesso proceduto in questo modo. Avevo una serie di pesi diversi, e chiedevo ad un allievo di mettere un peso su un gancio a sua scelta. Poi, un altro allievo doveva prendere un peso diverso e posizionarlo sull’altro braccio, anche attraverso prove diverse, in modo che la bilancia andasse in equilibrio. Una volta trovata la condizione di equilibrio, veniva segnato sulla lavagna il valore dei due pesi e la rispettiva posizione. Dopo alcune prove eseguite in questo modo, eventualmente chiedevo che l’equilibrio fosse trovato con 2 o più pesi in diverse posizioni. Il risultato era qualcosa del genere:

DSC02348

Figura 3 – Esperimento sulla leva preso da un quaderno

Il giorno dopo si ragiona insieme per arrivare a definire la legge:

Peso1 x posizione1 = peso2 x posizione2

Rispettivamente, con più pesi:

Peso1 x posizione1 = peso2 x posizione2 + peso3 x posizione3

Questa regola da noi derivata direttamente dal fenomeno osservato, in condizioni ordinarie, vale sempre. In quanto tale, non vi è nulla da aggiungere. Questo è un concetto chiuso.

Solitamente, nell’insegnamento si tende sempre a voler giungere a concetto chiusi, definitivi. Quello che invece viene chiesto in una scuola Steiner è di lasciare alcuni concetti aperti. Questa necessità è anche evidente dal nostro piano di studi, in cui nella fisica vengono immediatamente trattati a partire dalla VI classe quasi tutti gli argomenti (ottica, acustica, meccanica, elettricità, magnetismo, termodinamica). Questi però vengono poi ripresi negli anni seguenti, ed ogni anno si rielabora quanto visto ad un livello superiore, in maniera adatta all’età e con dettagli e sfaccettature nuove. Non è quindi pensabile, e sarebbe un grave errore, arrivare già ai concetti chiusi e definitivi in VI classe. Semplicemente, mancherebbe l’esperienza sperimentale per fare ciò. Sarebbe pensabile farlo unicamente imponendo agli allievi le teorie moderne che spiegano questi fenomeni, ma così facendo verrebbe violata proprio l’idea di fondo, e cioè di non dare agli allievi, nelle scienze, affermazioni in cui devono credere, ma di derivare sempre dall’esperienza le eventuali considerazioni e ragionamenti che ogni esperimento ha stimolato.

Per chiarire ulteriormente questo punto, mi riferisco di nuovo alla Filosofia della libertà, ed in particolare al passaggio già citato sopra:

Dobbiamo pensare ad un essere con intelligenza umana pienamente sviluppata che sorga dal nulla e si ponga di fronte al mondo. Ciò di cui egli si accorgerebbe, prima di mettere in attività il suo pensare, è il puro contenuto dell’osservazione. Il mondo gli mostrerebbe allora solo il semplice aggregato sconnesso di oggetti di sensazione: colori, suoni, sensazioni di pressione, di calore, di gusto, di olfatto; e poi sentimenti di piacere e di dispiacere. Tale aggregato è il contenuto della pura osservazione, priva di pensiero. Di fronte vi è il pensare che è pronto a sviluppare la sua attività, se trova un punto adatto di attacco. L’esperienza insegna presto che esso lo trova. Il pensare è in grado di tirare dei fili da un elemento di osservazione a un altro. Esso collega con questi elementi determinati concetti e li mette così in relazione fra loro.

(La sottolineatura è mia)

Nelle ultime due frasi Steiner descrive il pensare come la capacità di tirare dei fili, collegare elementi di osservazione con determinati concetti mettendoli così in relazione. Un concetto aperto, da come lo intendo io, possiede dei fili che constatiamo esserci dalle contingenze specifiche, ma che non sappiamo ancora esattamente dove giungano. Potremmo fare ipotesi o assunzioni, ma con l’approccio goetheanistico cerchiamo di evitare ciò. Al limite proviamo a fare altre prove che ci permettano di collegare all’elemento di osservazione altri concetti, ma ritengo essere giusta pratica abituare i ragazzi a procedere, nel pensare, in modo scientifico goetheanistico, riconoscendo i limiti forniti dall’osservazione in un dato momento. Come già ribadito, se il fenomeno non mi permette di dire di più, non dico di più (in termini filosofici, se l’osservazione mi permette di intuire che c’è un filo collegato all’elemento di osservazione ma che non so a quale concetto si collega, prendo coscienza che questo è il limite che l’osservazione in quel dato momento mi impone). Lasciarsi andare alla fantasia può essere utile se questa si orienta allo sviluppo di ulteriori osservazioni dell’elemento specifico trattato, ma può essere estremamente fuorviante se si vuole a tutti i costi ipotizzare collegamenti non comprovati dall’esperienza. Purtroppo, la scienza è piena di collegamenti scientificamente illeciti di questo tipo. L’esperienza scientifica ci mostra che, per la naturale tendenza dell’uomo in questa era, spesso queste teorie si trasformano in dogmi e bloccano in partenza qualsiasi possibile spunto verso una migliore comprensione scientificamente comprovata. Lo studioso attento riconoscerà questo processo in molti ambiti scientifici, ma non essendo questo il tema di questa pubblicazione non approfondirò ulteriormente.

A queste considerazioni aggiungo che, come già messo in evidenza, la scienza non ha ancora capito e scoperto tutto, e vi è ancora molto da ricercare ed elaborare. È quindi giusto che i ragazzi si abituino a quest’idea e non cadano nell’errore di credere che la scienza attuale sia totale e definitiva. Proprio uno di loro un giorno potrebbe divenire lo scienziato che permette all’umanità di fare un nuovo passo di comprensione in qualche ambito di ricerca. In generale, la regola che mi sono posto è di andare, coi ragionamento, fino a dove l’osservazione dei fenomeni ce lo permette, evitando, soprattutto nelle medie, di portare teorie esplicative di qualunque sorta, siano scientifiche o steineriane. Questo, come è prevedibile, porta all’elaborazione di tanti concetti aperti, e ritengo che sia giusto così.

Nelle superiori alte poi si possono (e si devono) presentare anche le teorie ufficiali, ma ritengo giusto che vengano presentate per quello che sono: dei modelli descrittivi della realtà ma che non hanno valenza di verità assolute.

Riguardo alle teorie derivate dal lavoro di Steiner, anche in questo ambito viene spesso fatto un grande errore. Si pensa che, visto che non si portano le teorie della scienza ufficiale, si debbano portare quelle proposte da Steiner. Ho avuto a che fare con docenti che presentavano l’Europa a geografia associando alle quattro regioni Nord, Sud, Est e Ovest i quattro elementi Aria, Fuoco, Terra e Acqua (o forse era un’altra sequenza, non ricordo) perché avevano letto così su qualche manuale per docenti. Se queste associazioni vengono derivate dal docente insieme alla classe dall’osservazione diretta delle peculiarità dell’Europa, è anche pensabile menzionare rapidamente gli elementi (anche se io mi fermerei all’osservazione qualitativa), ma è a mio avviso completamente sbagliato presentare queste associazioni in un discorso introduttivo e generale sulla geografia del continente europeo. Anche se di origine steineriana, si tratta sempre di un dogma fintantoché non è rispecchiato dall’esperienza dei ragazzi.

Per istaurare un ragionamento pertinente e costruttivo sugli esperimenti visti il giorno precedente, i docenti del seminario di Kassel suggeriscono di partire da una domanda ben pensata del docente. La domanda dovrebbe escludere di iniziare con “Perché” o “Come mai” ma dovrebbe essere a più ampio respiro, quindi qualcosa del tipo “.. cosa è successo esattamente quando abbiamo fatto questo o quello?”. Da come la intendo, la ragione di questo fatto è che non stiamo principalmente cercando di dare risposte certe per ogni esperimento eseguito, ma stiamo cercando di esercitare il pensare.

In ogni caso, sia che si voglia giungere ad un concetto chiuso o che si voglia ragionare lasciando il concetto aperto, questo non deve essere fatto dal docente, ma insieme agli allievi. Il docente pone domande e modera gli interventi, contribuisce a rendere più chiaro il contributo di uno specifico allievo e magari alla fine riassume i contributi in modo ordinato. Ma più riesce ad evitare di dare lui la spiegazione, più la lezione è interessante ed educativa per gli allievi.

Importante in questa fase è anche l’associazione di quanto visto a livello sperimentale con elementi della vita di tutti i giorni e con fattori del vissuto umano in generale. Si vuole in questo modo far passare l’idea che quanto messo in evidenza tramite l’esperimento ha una pertinenza con la vita umana, non è astratto e sconnesso da essa. In questo contesto, si può quindi raccontare di una realizzazione umana a cui il particolare fenomeno è correlato, si può raccontare di un fenomeno naturale in cui si esterna tale fenomeno, si possono raccontare elementi biografici di chi per primo ha identificato e isolato il fenomeno, e così di seguito. Ogni docente può lasciarsi andare alla fantasia nel prendere esempi del mondo reale che permettano ai ragazzi di inquadrare meglio il fenomeno nella sua importanza. Si sta’ in questo modo contribuendo a posizionare il nuovo sassolino (concetto) nel mosaico dell’immagine interiore del mondo che gli allievi stanno costruendo. In questo senso, il concetto può anche rimanere aperto senza per questo disturbare il processo di ordinamento interiore di esperienze e concetti.

I docenti di Kassel suggeriscono anche che, alla fine della 3a fase, venga lasciato del tempo agli allievi (5-10 minuti) durante il quale, in silenzio, ogn’uno provi a formulare con parole proprie per iscritto in poche righe le considerazioni discusse insieme (quindi non le descrizioni degli esperimenti, ma i pensieri discussi insieme). Mackensen stesso mi ha consigliato, in un VIII classe, di ritirare questi corti scritti e correggerli entro la mattinata cosicché gli allievi potessero riportarli sul quaderno di bella copia ancora la sera stessa. Aggiungo che in questo caso si stimolano gli allievi a formulare con parole proprie quanto compreso durante la 3a fase di lezione.

L’idea che mi sono fatto è che questo processo, che può iniziare nelle basse medie con un corto dettato, deve essere gradualmente fatto fare agli allievi nelle classi VII e VIII per permettere loro di acquisire fiducia nelle proprie capacità di pensare e per abituarli a pensare autonomamente. Questo non è sempre evidente da fare perché gli allievi, in base alla mia esperienza, non sono generalmente abituati a scrivere pensieri propri in quest’età, ed è spesso molto faticoso per loro farlo. Ogni docente dovrà valutare, in funzione della classe che ha di fronte e delle abitudini che essa ha dal maestro di classe, in che età e fino a che punto si possa arrivare nel stimolarli a scrivere i propri pensieri. Nelle alte superiori questa diventa poi abbastanza automatico.

Aggiungo che in generale non ritengo di grande utilità fare dettati durante la lezione per svariate ragioni. Se è vero che in questo modo i quaderni risultano più belli e completi, vale anche la considerazione che il tempo impiegato a dettare viene tolto dalla lezione durante la quale si potrebbero fare cose a mio avviso più utili. Inoltre, l’attività dello scrivere un dettato è completamente passiva per i ragazzi, che non ragionano assolutamente su quanto viene scritto perché troppo impegnati ad inseguire le parole che il maestro dice. È spesso anche un’attività noiosa e pedante, che toglie tante energie al docente (che continua a ripetere le frasi per i più lenti) e agli allievi. Per quelli lenti perché ovviamente hanno ancora qualche difficoltà a scrivere e possono entrare in ansia, e per quelli veloci che sono in costante attesa che gli altri li raggiungano.

Riassumendo quanto detto quindi, per la fisica vale la seguente tripartizione della lezione:

Percezione ? Fare esperimenti.

Rappresentazione ? Ripetere a parole, in base alla memoria, quanto accaduto durante gli esperimenti, prendere appunti, disegnare gli esperimenti (a casa o a fine lezione, scrivere una relazione sugli esperimenti).

Concetto ? Ripetizione rapida di quanto sperimentato, ragionare con gli allievi partendo da una domanda su quanto visto il giorno precedente, giungere alla formulazione di una legge se questo è il caso, fornire racconti sul collegamento di quanto sperimentato con il mondo umano e naturale, scrivere o far scrivere agli allievi con parole proprie i ragionamenti fatti.

Il docente deve ricordare che ciò che lascerà la maggiore impronta nella vita dell’allievo è la prima fase. Per Peter Guttenhöfer essa è la parte più “sacra” (allerheiligste) della lezione. Io stesso ho molti ricordi di esperimenti, ma quasi nessun ricordo delle altre fasi (tranne qualche ragionamento chiave fatto nelle superiori). Mi spiego questo fatto con la considerazione che gli allievi, di fatto, fanno già da soli una parte del processo Percezione-Rappresentazione-Concetto prima che ciò venga poi fatto in classe. Questa constatazione è coerente con quanto elaborato da Steiner nella Filosofia della libertà. Capita spesso che un allievo, durante un esperimento, dica: “Ah, ma allora è per questa ragione che gli uomini fanno questa tal cosa”, e frasi del genere. In realtà, al giorno d’oggi in cui gli allievi hanno un facile accesso a qualsiasi tipo di informazione e vengono stimolati troppo spesso a dare giudizi in età infantile, questo capita anche troppo di frequente. Il docente deve quindi mantenere un doppio rigore, perché i giudizi troppo affrettati sono una piaga enorme che affligge l’umanità moderna. Ho fatto esperienza con diversi allievi che, di fatto, soprattutto se venivano dalla scuola pubblica, sapevano già la spiegazione di alcuni fenomeni. Questa però era spesso la ripetizione, con poca o nulla comprensione, di quanto avevano memorizzato in momenti di vita precedenti. Il docente non deve lasciarsi illudere che quindi la sorpresa dell’esperimento sia sfumata, o che gli allievi non abbiano nulla di nuovo da imparare perché conoscono già le spiegazioni, ma procedere coi piedi di piombo nell’intavolare una discussione costruttiva ed illuminante. La mia esperienza mi ha mostrato, proprio in relazione ad allievi venuti dalla scuola pubblica, che col tempo (1-2 anni) nelle medie è ancora possibile fare perdere loro questa abitudine al giudizio affrettato, mostrando loro che di fatto c’è molto di più dietro ad un fenomeno che non il semplice raggiungimento della spiegazione. È auspicabile riuscire a portare il sentimento espressomi personalmente da Mackensen con le parole “ricchezza della natura” (Reichtum der Natur).

Chimica

A grandi linee, lo svolgimento della tripartizione nella chimica avviene in maniera simile a quanto si fa nella fisica. Anche nella chimica si parte da esperimenti (percezione), si ripete quanto osservato a memoria, si fa il disegno e si scrive la relazione (rappresentazione) e si fanno ragionamento e collegamenti con il mondo umano e naturale (concetto).

Nella chimica però è più difficile trovare un ragionamento specifico per ogni esperimento osservato. Questo perché da un lato vi è tantissima materia da trattare (le sostanze, il loro comportamento, la loro capacità di associarsi ad altre sostanze, ecc. creano una varietà pressoché infinita di possibilità), in secondo luogo parte dello studio della chimica, soprattutto nelle medie, tende ad essere di tipo conoscitivo (l’alcool brucia con fiamma blu, senza fumo, il petrolio con fiamma gialla e fumo nero.. l’esperimento contiene già praticamente tutto quanto si possa dire a questo livello su queste sostanze), ed in terzo luogo perché spesso, i comportamenti generalizzabili possono essere identificato solo dopo numerosi esperimenti. Fornirò in seguito un esempio specifico di come procedere con il discorso acidi e basi in VII classe. Quello che ritengo importante nella chimica, forse ancora di più che nella fisica, è di portare esempi reali di vita umana e naturale (nella 3a fase della lezione) che aiutino ad inquadrare bene il fenomeno chimico nella sua relazione col mondo.

Il professor Schulze di Kassel ritiene fondamentale, in VII classe, portare tante storie di eventi umani in cui i fenomeni chimici visti durante gli esperimenti vengano messi in evidenza. Altri eventi importanti da portare in forma di racconto ho constatato essere, nella mia esperienza, collegati alla geografia fisica, ai vulcani, ai geyser, ai laghi acidi, salini e basici, talvolta anche ai fenomeni climatici e a quelli del mondo vegetale e animale. In questo modo, i fenomeni visti nel laboratorio non rimangono fini a se stessi ma diventano fonte di comprensione del funzionamento più generale del mondo.

In VIII, in cui si trattano le sostanze organiche, il collegamento col mondo è ovviamente in relazione al funzionamento del corpo fisico, ai cibi, alle usanze ed alle tradizioni umane per la trasformazione delle sostanze alimentari, ecc.

In questo modo, in ogni anno è previsto lo studio di un particolare ambito del vissuto umano dal punto di vista delle sostanze e della loro trasformazione secondo criteri antropologici di sviluppo del giovane essere umano.

Anche con la chimica ci tengo ad evidenziare il fatto che, soprattutto per eventuali maestri di classe che danno queste epoche ma che comprensibilmente non sono esperti in materia, la cosa migliore da fare, se non si sa’ bene cosa dire nella parte di concetto, è di rimanere aderenti con le proprie considerazioni a quanto osservato. In questo modo non si può sbagliare. Si può ragionare, con concetti aperti, fino a dove gli esperimenti ci permettono di andare, e non oltre. Piuttosto che portare una considerazione letta su di un dotto libro ma che il docente stesso non comprende (perché non ancora parte della sua reale esperienza con la materia), è meglio tralasciare tale considerazione e rimanere sulla caratterizzazione dei fatti osservati.

Voglio qui ribadire un altro elemento fondamentale messo costantemente in evidenza da Manfred von Mackensen nei suoi scritti: evitare, fino alla XI classe, di portare equazioni di equilibrio chimico, formule chimiche ed in generale il concetto di elemento (C, O, H, Na, Cu, ecc.).

La prima ragione ovvia per questo suggerimento è il fatto che gli allievi non trattano la tabella degli elementi fino alla XI classe. In secondo luogo, dire loro che quel gas pesante, inerte e che spegne i fuochi (anidride carbonica) è composto da carbonio ed ossigeno (CO2) è fornire un’informazione non verificabile dagli allievi ed in cui devono quindi credere (cfr. sopra). Infine, dopo 4 anni di chimica (VII, VIII, IX, X) cominciano ad avere lentamente la percezione che in una sostanza di un certo tipo può nascondersi una sostanza completamente diversa (per esempio, che nel vetriolo azzurro, cristallino di colore blu può essere messa in evidenza con alcuni esperimenti la sostanza rame, metallica). Questo non è pensabile farlo già nelle medie senza portare teorie non verificate dalla percezione, e non è neppure il punto saliente della lezione. Rimando ai libri di Manfred von Mackensen per un più attento esame di queste problematiche. Riporto in questa sede solo la sua idea generale: la chimica come vuole essere affrontata nella scuola Waldorf nelle medie e basse superiori mette a fuoco i processi e le trasformazioni chimiche al posto dell’approccio classico orientato alla catalogazione delle sostanze e degli elementi.

La tripartizione nelle epoche di chimica avrà quindi la seguente struttura generale:

Percezione ? Fare esperimenti.

Rappresentazione ? Ripetere a parole, in base alla memoria, quanto accaduto durante gli esperimenti, prendere appunti, disegnare gli esperimenti (a casa o a fine lezione, scrivere una relazione sugli esperimenti).

Concetto ? Ripetizione rapida di quanto sperimentato, ragionare con gli allievi partendo da una domanda su quanto visto il giorno precedente, giungere alla formulazione di una legge se questo è il caso, fornire racconti sul collegamento di quanto sperimentato con il mondo umano e naturale, scrivere o far scrivere agli allievi con parole proprie i ragionamenti fatti.

Geografia

Ho dato epoche di geografia solo in VI, VII ed VIII classe. Quanto dirò quindi si riferisce principalmente a questi anni.

Affrontando il problema di come presentare la geografia nel modo tripartito proposto in questa pubblicazione, ci viene in grande aiuto l’estratto dell’O.O. 302 già citato sopra e che ripeto per chiarezza:

Supponiamo che io dia una lezione di storia. […] Oggi racconto ai ragazzi i nudi fatti, quelli che avvengono sensibilmente nei luoghi e nel tempo. Questo afferra il ragazzo tutto, come il fare esperimenti, perché egli è obbligato a pensare spazialmente. […] Fatto questo, cerco di riferirmi un po’ alle persone che si sono presentate, o ad avvenimenti accaduti, non però raccontando realmente, ma incominciando a caratterizzare; guido così l’attenzione su ciò che prima ho presentato, ma caratterizzandolo un po’. Dopo queste due tappe prima impegnando tutto il ragazzo e poi, caratterizzando, impegnando la sua parte ritmica, lascio andare il ragazzo. Domani lo accolgo in classe, ed egli mi riporta nella testa le fotografie spirituali di quanto era stato fatto il giorno precedente. Gli vado incontro, considerando per esempio se Mitridate o Alcibiade fossero o no uomini onesti, dunque facendo considerazioni. Un giorno devo presentare più ciò che caratterizza obbiettivamente, il giorno seguente ciò che giudica e riflette; con questo agisco in modo che i tre sistemi dell’essere umano tripartito si connettano realmente nel giusto modo.

Ci troviamo chiaramente di fronte ad una materia con peculiarità molto diverse dalla fisica e dalla chimica. Per certi aspetti, l’insegnamento della geografia è più simile a quello della storia che non a quello delle materie scientifiche. Questo perché il docente presenta la materia ma ha difficilmente la possibilità di dare delle percezioni dirette all’allievo. È pensabile dare alcune percezioni dirette quando si tratta la geografia della propria regione, ma questo diventa impensabile quando si tratta, per esempio nella VII classe, la geografia dell’Africa. Procedendo oltre, quando si presenta la vulcanologia, la tettonica a placche, il clima, ecc. nelle superiori, si possono chiaramente fare per esempio operazioni di rilevazione regolare di alcuni parametri climatici (temperatura, pressione, umidità), ma derivare direttamente dalla percezione pura le regole di comportamento dei fronti freddi, caldi, i cicloni e gli anticicloni, le correnti a getto, ecc. non è pensabile nell’ambito di un’epoca di 4 settimane con 2 ore al giorno a disposizione.

La geografia dovrebbe quindi essere sempre un tema da portare avanti durante le uscite scolastiche, onde permettere agli allievi di orientarsi nel mondo e potendo in questo modo dare anche qualche percezione diretta.

Come procediamo quindi nelle lezioni d’epoca? Io mi sono basato, per le epoche di geografia in VI, VII e VIII classe sullo scritto appena citato da Rudolf Steiner ed ho cercato sistematicamente di raccontare una storia vera pertinente con il tema dell’epoca. Andrò più nel dettaglio in seguito, ma solo per fare un esempio, in VII ho cominciato l’epoca di geografia raccontando nel dettaglio, con una buona dose di particolari emotivamente rilevanti, la storia di Vasco de Gama con la sua circumnavigazione dell’Africa. Questo mi è sembrato un buon approccio anche perché in questi anni delle medie uno dei temi di storia sono proprio le scoperte geografiche.

Nella seconda fase (rappresentazione), fintantoché si stanno ancora trattando i continenti ed in generale la disposizione delle terre emerse, ho sempre proceduto col fare innanzitutto la ripetizione a memoria con scrittura da parte mia alla lavagna dei punti salienti della caratteristica geografica di cui si è parlato in quel giorno (un fiume per esempio, o un deserto). Quanto scritto alla lavagna funge poi da base per la stesura da parte degli allievi del testo discorsivo a casa. Dopodiché ho fatto fare (e fatto io alla lavagna) una cartina fornendo coordinate precise e arricchendola di particolari mano a mano che l’epoca proseguiva (fiumi, catene montuose, deserti, foreste, ecc.). Se un giorno parlavo del fiume Nilo raccontando una storia pertinente, poi questo veniva aggiunto nella seconda fase alla cartina tramite la fornitura di coordinate cartesiane di un numero sufficiente di punti in modo da permetterne il disegno. Sempre nella seconda fase della lezione, ho anche fatto spesso disegni artistici (preparati il giorno precedente) di elementi caratteristici della terra presa in esame, come animali specifici, paesaggi particolari e popoli tipici. Ho anche provveduto ad allestire l’aula per dare un minimo di “estetica geografica”, quindi portando un mappamondo, molti libri con fotografie e figure pertinenti, magari un modello di un galeone (in VII), insomma, ho cercato di creare un “laboratorio geografico”.

Nella fase di concetto, il giorno dopo, dopo la rievocazione di quanto trattato il giorno precedente, ho tentato di contestualizzare quanto presentato il giorno prima portando l’attenzione, per esempio, sul fatto che il delta del Nilo è grande come metà Svizzera, o che la portata d’acqua del fiume corrisponde a tot fiumi Ticino, o che la lunghezza del fiume farebbe tot volte il giro del Ticino. Insomma, ho tentato di relazionare il nuovo a luoghi e fatti conosciuti agli allievi, a cose che sono dentro il loro orizzonte delle percezioni. In altre occasione, ad epoca avanzata, ho indirizzato le considerazioni sul confronto tra due fiumi importanti visti nell’epoca, come il Volga ed il Rio delle Amazzoni, mettendo in evidenza le differenze qualitative e quantitative che presentano. Questo può anche essere fatto tra nazioni diverse, o tra deserti diversi, mostrando come malgrado il Sahara ed il Taklamakan siano entrambi deserti con dune sabbiose a tratti, in uno fa sempre caldo e nell’altro può addirittura cadere la neve. Se si è riusciti a parlare di popoli, si può ragionare come un popolo che vive in una regione è plasmato nel suo stile di vita, nelle sue caratteristiche culturali e addirittura in quelle fisiche dalle caratteristiche geografiche e climatiche di quella regione. Insomma, l’idea è di fare ragionamenti e pensare in termini geografici sulle “ricchezze del mondo”.

Ci tengo a specificare che, avendo dato un totale di 3 epoche di geografia, questi sono solo pensieri iniziali, e che persone con più esperienza di me in geografia potranno certamente avere idee ancora migliori sul come applicare la tripartizione a questa materia.

Riassumendo, abbiamo quindi:

Percezione ? Portare un racconto vero e coinvolgente di tipo storico, economico, umano o geografico di quanto si tratta quel giorno a lezione (un fiume, un deserto, una popolazione, un vulcano, ecc.)

Rappresentazione ? Ripetere a parole, in base alla memoria, quanto presentato nella prima fase, prendere appunti, disegnare una cartina e altri elementi pertinenti, anche disegni di tipo artistico (a casa o a fine lezione, scrivere una relazione su quanto trattato).

Concetto ? Ripetizione rapida di quanto trattato, ragionare con gli allievi partendo da una domanda su quanto visto il giorno precedente, fornire spunti di riflessione, confronti, similitudini, diversità, portare quanto di nuovo è stato trattato nell’orizzonte delle percezioni dell’allievo, personalizzarlo.

Come nota aggiuntiva, ho avuto molto successo quando, nell’ambito della presentazione di una regione specifica della terra, ho raccontato la mia esperienza diretta di visita di quella regione. Quando il docente parla della sua vita, ha quasi sempre l’immediata attenzione di tutti gli allievi. Questa è quindi una pratica da promuovere se si ha viaggiato un po’. I racconti di vita vissuta sono sempre molto più coinvolgenti emotivamente di quanto non lo sia un racconto che, seppur preparato molto bene, è stato preso da un libro o dal lavoro di qualcuno d’altro.

Matematica

L’applicazione in modo sensato della tripartizione nella matematica è stato per me tema di ricerca per molti anni. Fintantoché, nelle medie basse, si trattano argomenti che possono essere derivati direttamente dalla percezione, è facile applicare una modalità simile a quanto descritto sopra per la fisica, in cui si porta l’attenzione a situazioni di vita reale che possono essere ordinate e comprese meglio attraverso l’uso dei numeri. Questo avviene, per esempio, abbastanza bene nello studio dell’economia nelle classi VI e VII, come pure è fattibile fino ad un certo punto nello studio dei numeri negativi e di altri argomenti che si trattano in quegli anni.

Non mi era però chiaro come procedere quando ci si muove lentamente verso argomenti matematici sempre più astratti (come l’algebra), in cui il legame con il mondo delle percezioni fisiche va indebolendosi (fino a scomparire del tutto, per esempio nei numeri complessi).

Ho poi trovato un passaggio de La filosofia della libertà che è stato lo spunto per una comprensione nuova del come procedere nella tripartizione in matematica e in altre materie[18]:

Data l’incertezza del linguaggio corrente, mi sembra necessario intendermi col lettore in merito all’uso di una parola che in seguito dovrò impiegare. Chiamerò percezioni gli oggetti diretti della sensazione di cui prima ho parlato, in quanto il soggetto cosciente ne prende conoscenza attraverso l’osservazione. Con questo nome non indico quindi il processo dell’osservazione, ma l’oggetto dell’osservazione stessa.

Non scelgo l’espressione “sensazione” perché in fisiologia essa ha un significato determinato che è più ristretto del mio concetto di percezione. Posso ben indicare come percezione un sentimento in me, ma non come sensazione, nel senso della fisiologia. Anche del mio sentimento io prendo conoscenza per il fatto che per me esso diventa percezione. E il modo in cui prendiamo conoscenza del nostro pensare mediante l’osservazione è tale che possiamo chiamare percezione anche il pensare, nel suo primo rivelarsi alla nostra coscienza.

(la sottolineatura è mia)

Ricordo che, come detto sopra, la parola tedesca tradotta con percezione è Wahrnehmung che si compone delle due parole Wahr (vero) e nehmen (prendere).

Il passaggio sottolineato è a mio avviso un passaggio chiave per poter applicare la tripartizione in tutte le materie. Per quanto riguarda la matematica, sono ora dell’avviso che ciò che va fatto nella prima fase della lezione è una percezione del pensare.

Tutti potranno ricordarsi di una situazione di vita in cui, parlando con un’altra persona che espone le sue idee, ad un certo punto interiormente ci si è detto “ha ragione, da questo punto di vista non l’avevo mai guardata la questione”. Ritengo che in una situazione del genere vi sia effettivamente stata una percezione del pensare, il nostro interlocutore ha presentato una modalità di collegare fili tra elementi di osservazione e concetti che noi non avevamo mai fatto.

In questo senso nella matematica la parte di Percezione, quando non può basarsi su una situazione di vita reale perché è già troppo astratta, diventa una Percezione del pensare. Il docente propone un ragionamento che, per parafrasare Steiner, si rivela per la prima volta alla coscienza dell’allievo.

Cosa facciamo quindi nella fase due, quella di Rappresentazione? Come esposto sopra, la rappresentazione si collega al sentimento. Potremmo dunque definirla come l’aspetto più individuale della tripartizione, quello in cui l’allievo personalizza quanto visto. In matematica capita spesso che, quando un docente spiega qualcosa sembra tutto chiaro e comprensibile. Quando poi fornisce degli esercizi da svolgere, non si ha idea da dove cominciare. Questo accade perché siamo stati ben in grado di seguire il ragionamento fatto da qualcuno d’altro, ma non abbiamo ancora ripetuto il ragionamento noi stessi, non siamo ancora stati in grado di ripetere le associazione di concetti esposte dalla persona che ci ha dato la spiegazione. Ritengo quindi che la fase di Rappresentazione, in matematica, sia quello che ordinariamente si definisce esercitazione. Gli allievi sono stimolati, tramite esercizi che richiedono la ricostruzione del ragionamento fatto dal docente, ad interiorizzare la percezione del pensare avuta, a farla loro.

Nella terza fase, quella del Concetto, si cercherà poi di trovare una formulazione generalizzata di quanto presentato il giorno prima. Vi sono svariate altre possibilità che vedremo caso per caso più avanti.

Riassumendo, la tripartizione nella matematica si struttura nel seguente modo:

Percezione ? Riferirsi ad un esempio di vita reale per portare una percezione del pensare (se questo è fattibile), oppure presentare una pura percezione del pensare attraverso un ragionamento.

Rappresentazione ? Far ripetere agli allievi alcuni esercizi che richiedono di ripercorrere il ragionamento fatto nella fase precedente.

Concetto ? Raggiungere, tramite ragionamenti, una formulazione generalizzata.

Geometria

Per la geometria vale un discorso analogo a quello per la matematica, anche se la geometria possiede maggiormente un elemento di Percezione fisica, quello visivo.

In generale, in tutte le materie va tenuto conto che, tra la VI e la X classe, la metodologia didattica cambia di anno in anno. Questo è giustificato da considerazioni antropologiche: i giovani uomini passano attraverso un periodo veramente tempestoso, in cui i cambiamenti a tutti i livelli (fisico, emotivo-sentimentale, mentale) sono tanti ed in continua successione. Vi sono anni in cui, entro pochi mesi, alcuni allievi crescono fisicamente di molti centimetri, nasce la dimensione individuale, ci si comincia a sentire “distaccati” dal mondo, c’è la maturazione della sessualità, ci si muove lentamente dal 2° al 3° settennio, con il passaggio, come ci riporta Steiner, da una fase della vita dominata dal “bello” ad una che vuole essere dominata dal “vero”. L’insegnamento va quindi costantemente adattato alle condizioni di sviluppo dei giovani uomini. In questo senso, una cosa che funziona perfettamente in VII classe può non essere più adatta in X. Rimando all’ampia bibliografia antroposofica per una descrizione più dettagliata di queste fasi. Le menziono qui perché nell’insegnamento della geometria se ne deve tenere particolare conto.

Per quanto riguarda le medie, la Percezione della geometria nella mia esperienza vuole essere generalmente una costruzione geometrica, un disegno. Per esempio, quando porto il teorema di Pitagora in VII, ad un certo punto porto uno dei disegni classici che si fanno, come un triangolo pitagorico su cui vengono costruiti i quadrati dei cateti e dell’ipotenusa. Questi vengono suddivisi in ulteriori quadrati in modo che già nella costruzione iniziale sia deducibile che la somma dei quadrati costruiti sui cateti sia uguale ai quadrati contenuti nel quadrato dell’ipotenusa. Il disegno è rappresentato in figura 4.

triangolo pitagorico

Figura 4 – Il teorema di Pitagora

A differenza di quanto mostrato nel disegno però, nella fase di percezione mi limiterò a disegnare solo le linee, tralasciando per il momento i colori e le lettere. Questo è già un grande impegno per molti ragazzi perché la costruzione con riga, squadra e compasso non è affatto ovvia.

Nella seconda fase, quella di Rappresentazione, è il momento in cui vengono aggiunti colori significativi, per esempio come mostrato nel disegno. Non si fornisce però ancora alcuna spiegazione, ciò che insegna è il tempo impiegato a riempire con i colori i vari quadrati, che i ragazzi ne siano consapevoli oppure no. È importante che il disegno sia anche bello!

Il giorno dopo, durante la parte di Concetto, con debiti ragionamenti vengono aggiunte le lettere e ci si ricollega a quanto visto già in precedenza nell’epoca, e cioè che il quadrato costruito sull’ipotenusa si può esprimere come c2, e rispettivamente si fa lo stesso con gli altri lati del triangolo. Si ragiona sul disegno finché uno o più allievi osservano il fatto che le somme dei quadratini contenuti nei quadrati dei due cateti corrispondono ai quadratini contenuti nel quadrato dell’ipotenusa. Questa osservazione talvolta giunge in classe come una vera e propria illuminazione che porta grande piacere interiore ai ragazzi. Il teorema di Pitagora deve essere scoperto dai ragazzi, non spiegato.

Ovviamente non si finisce qui. Anche per il corretto procedere scientifico, un esempio non è sufficiente a stabilire una regola generale. Si potranno impiegare diversi giorni a portare altri esempi anche più pratici (ritagli con la carta, Steiner propone anche di usare sabbia per coprire le aree), altre dimostrazioni (a me piace molto quella indiana) che consolideranno la veridicità della legge derivata.

Nelle classi superiori, per esempio con la trigonometria in X classe, si procederà invece in modo più adatto all’età, impiegando meno tempo nella corretta colorazione (anche se non deve per forza mancare) e procedendo come indicato per la matematica con la ripetizione dei ragionamenti proposti nella fase uno tramite debiti esercizi.

Nella geometria la tripartizione si struttura quindi nel seguente modo:

Percezione ? Fare una costruzione geometrica (nelle medie), fare un ragionamento geometrico con l’ausilio di un disegno (nelle superiori)

Rappresentazione ? Completare il disegno con colori pertinenti (nelle medie), far ripetere agli allievi alcuni esercizi che richiedono di ripercorrere il ragionamento fatto nella fase precedente (nelle superiori).

Concetto ? Raggiungere, tramite ragionamenti, la regola contenuta nel disegno o raggiungere una formulazione generalizzata.

***

Dopo questa presentazione generale della tripartizione applicata alle varie materie qualcuno avrà forse notato una cosa importante: a seconda della materia, le tre fasi “slittano”, si spostano, nel senso che l’attività che in una materia rientra nell’ambito della Percezione, forse in un’altra diventa Rappresentazione, ed in una terza magari addirittura Concetto. Di questo mi sono reso conto negli anni e non lo ritengo un errore, un fatto che scredita la tripartizione ma anzi, che la conferma. L’uomo si compone di queste tre parti costitutive (percezione fisica, percezione del sentire, percezione del pensare) e le diverse materie vogliono portare contributi alla formazione del giovane essere umano in questi diversi ambiti. È quindi logicamente corretto ritenere che la Percezione, nelle varie materie, sia di elementi costitutivi diversi. Solo per fare un esempio non trattato, quando studio la storia dell’arte a quale parte percettiva mi appello? A mio avviso a quella del sentimento. Osservo opere d’arte del passato cercando di “sentire” quanto veniva espresso dall’artista. Includo quindi uno schema riassuntivo in cui ho indicato le varie materie in associazione alla sfera in cui esse forniscono percezioni.

Mondo del sentimento

Sentire

?Storia dell’arte

?Materie artistiche

Mondo del pensare

Pensare

?Matematica

?Geometria

Mondo fisico

Fare

?Fisica

?Chimica

?Geografia

?Storia

?Biologia

Come detto, questa è solo una classificazione generale. A seconda del momento di sviluppo, della classe e del tema dell’epoca, ci possono essere cambiamenti. La distinzione non è inoltre così netta come qui indicato, nel senso che, per esempio, la geometria, anche se l’ho classificata nel mondo del pensare, contiene comunque una parte di rappresentazione, visto che si parte da un disegno, tecnico, ma sempre di un disegno si tratta. In quanto tale andrà a risuonare con un elemento di sentimento. Per dirla in altre parole, l’allievo, dopo che ha fatto un disegno geometrico, lo valuterà anche considerando se è “bello” oppure no. Considerazioni analoghe valgono per la storia (che conosco poco) e per altre materie.

Concludo questo capitolo ribadendo che quanto qui presentato può ovviamente essere preso come “ricetta” per strutturare le lezioni e va benissimo anche così. Chi intende però comprendere a fondo i ragionamenti che mi hanno portato a proporre quanto qui esposto e forse ad evolverli e migliorarli ulteriormente avrà ne La filosofia della libertà ampi spunti di riflessione. Voglio che sia chiaro che questa non è una teoria alternativa sull’educazione dei giovani, ma si fonda sull’analisi razionale dei processi di funzionamento dell’essere umano che Rudolf Steiner, in maniera innovativa ed elegante, ha espresso nell’opera citata. Ogn’uno può ripercorrere il suo corso di pensieri e giungere alla convinzione della loro correttezza. Se qualcosa di quanto qui presentato non dovesse “quadrare” con quanto portato da Steiner, questo è unicamente attribuibile a me.

Per quanto mi riguarda, la vedo così: tanto quanto nessuno può confutare che gli angoli interni di un triangolo piano, quando sommati, danno 180°, nessuno può logicamente confutare i ragionamenti che Steiner ha portato ne La filosofia della libertà. Sono solo spesso difficili da comprendere perché non siamo abituati a pensare in quel modo.

Il disegno

Se si apre un qualunque libro di fisica, chimica, biologia, geografia, ecc. si nota che vi sono molte immagini. Questo è anche ovvio: è già stato detto che un immagine vale come mille parole. Con l’immagine posso avere una visione immediata di una cosa, una situazione o un evento che necessita molte righe per essere descritta a parole. Inoltre, l’immagine rimane decisamente più facile da comprendere, perché le parole, soprattutto se descrivono qualcosa di complicato (un paesaggio, un apparecchio) richiedono da parte di chi le legge un lavoro di immaginazione per visualizzare coll’occhio interiore le varie parti costitutive dell’oggetto, e poi un’ulteriore sforzo per metterle tutte insieme. Questo, nell’immagine, avviene automaticamente senza grande sforzo.

Ma l’immagine disegnata, prodotta dall’uomo, ha altri grandi pregi.

Tempo fa ho acquistato il libro di Ernst Haeckel “Kunstformen der Natur”. In questo libro, il zoologo e naturalista ha disegnato centinaia di organismi, soprattutto microscopici, osservati e identificati durante anni di ricerche per mare. Alcuni appaiono così curiosi che sono andato a cercarli su internet per verificare se effettivamente esistessero. Li ho trovati ma ho fatto la seguente constatazione: malgrado esistano anche fotografie di questi organismi, nei libri sull’argomento si preferisce ancora mettere immagini disegnate, o da Haeckel o da altri. La ragione di questo fatto mi è apparsa immediatamente chiara facendo il confronto tra il disegno di Haeckel e la fotografia:

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Figura 5 – Fotografia di Globigerina bulloides

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Figura 6 – Tavola del libro di Haeckel

L’organismo in questione, chiamato Globigerina bulloides, appare nel centro della tavola del libro di Haeckel. Quale delle due immagini, disegno o foto, mi trasmette un’idea più chiara dell’organismo? Credo che nessuno abbia obiezioni se affermo che il disegno è molto più chiaro. Questo perché stiamo trattando un organismo abbastanza piccolo, e data la poca profondità di campo delle macchine fotografiche quando si usano lenti di ingrandimento, non è possibile fare una fotografia che abbia a fuoco tutto l’organismo nella sua tridimensionalità. Esiste poi il problema dell’illuminazione che fa rimanere nell’oscurità alcune parti dell’organismo e ne “brucia” altre se ce n’è troppa. Un tempo ero appassionato di ornitologia e anche nei manuali che elencano tutte le specie di uccelli vengono quasi sempre usati disegni al posto di fotografie. L’unico libro che possiedo che si basa su fotografie non è in grado di dare un’immagine chiara ed indubbia della colorazione del piumaggio, perché subentrano sempre difficoltà di riproduzione dovute all’illuminazione ed alle ombre.

Qual è dunque il vero vantaggio del disegno a confronto con la fotografia? Il disegno è il frutto di innumerevoli osservazioni, non di una sola (come è il caso della foto). Nel caso delle immagini dei microorganismi di Haeckel, per ottenere l’immagine globale dell’organismo posso immaginare che abbia dovuto osservarlo al microscopio mettendo a fuoco diverse posizione fino a poter giungere ad una rappresentazione di come appare l’organismo complessivamente. Nel caso dei libri di ornitologia, ogni piumaggio che è stato disegnato deriva dall’osservazioni di numerosi esemplari della specie, anche in relazione alle varie mute, al piumaggio giovanile, alle differenze tra i due sessi.

In tutti questi casi, il disegno non rappresenta l’oggetto o l’organismo di partenza ma la Rappresentazione che il disegnatore se ne è fatto. Ogni linea, ogni curva, ogni colore è stato osservato con attenzione, portato a piena coscienza e riprodotto nel modo migliore possibile. Il disegno rappresenta il Concetto individualizzato[19] che il disegnatore si è fatto dell’oggetto percepito. Rappresenta la rielaborazione da parte del pensare dell’oggetto percepito.

La conseguenza di questi ragionamenti è che il disegno, nella seconda fase della tripartizione dell’epoca, è di fondamentale importanza. Gli allievi hanno osservato l’esperimento ed ora, quando fanno il disegno, devono con coscienza andare a ripescare nella loro memoria ed a rivedere col loro occhio interiore quanto avevano osservato. Devono inoltre rappresentarlo coi mezzi che hanno a disposizione (matite e penne). Questo esercizio è a mio avviso fondamentale, e per questo altri prima di me[20] l’hanno incluso tra le attività da fare nella seconda fase della lezione d’epoca.

Ma il punto che voglio fare in questo capitolo non riguarda tanto quello che è sano per gli allievi, ma piuttosto ciò che deve fare il docente. L’attività di disegno è oggi considerata “superata” proprio a causa dell’avvento della fotografia. Nelle scuole pubbliche ormai si disegna poco dopo le elementari, e non è più considerata un’attività utile all’apprendimento. Si preferisce quindi dare immagini già fatte, o talvolta quelle orrende figure che hanno già tutta l’immagine coi contorni in nero e che l’allievo deve solo colorare nei campi contrassegnati. I docenti del giorno d’oggi, soprattutto quelli di scienze, hanno poca dimestichezza col disegno, ed avendo oltretutto forti capacità razionali (non a caso hanno scelto le scienze all’università), questo si associa molto di rado a grandi capacità artistiche. Generalmente, la frase che mi sono sentito dire tante volte può essere riassunta in: io non sono bravo a disegnare, quindi non faccio disegni ricercati alla lavagna ma lascio fare i disegni ai ragazzi.

A questo punto io tendo ad alzare la seguente obiezione: se tu, in quanto docente adulto, non sei in grado di creare una rappresentazione di quanto visto nell’esperimento, come puoi pretendere che i ragazzi ci riescano? La modalità di insegnamento proposta in questa pubblicazione parte dall’idea di voler sviluppare la capacità di pensare dei giovani uomini. Un esercizio molto utile a tal fine è proprio il disegno (e come mostrato, non sono io l’unico a dirlo). Ma questo esercizio è impossibile che tutti gli allievi riescano a farlo se il docente non fa da modello, se il docente non mostra loro come fare (principalmente nelle medie, ma non solo). Ma soprattutto, il docente non sarà in grado di aiutare gli allievi a crearsi una loro Rappresentazione se il docente stesso non è in grado di crearsela.

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Figura 7 – Disegni di esperimenti alla lavagna

Forte di questi pensieri, ormai già anni fa mi sono messo con maggiore impegno nel fare i disegni alla lavagna. Il mondo che ho scoperto è stato assolutamente incredibile. Ho cominciato a comprendere, o piuttosto a vivere, la teoria dei colori di Goethe. L’impegno costante nel cercare di fare i disegni al meglio mi ha permesso di scoprire che spesso, di fatto, noi non “vediamo” quello che realmente appare davanti ai nostri occhi, ma vediamo quello che “pensiamo” di osservare. Un semplice esempio. In una giornata foschiosa di primavera chiediamo ad un amico di che colore vede una montagna che dista alcuni chilometri. Essendo la montagna coperta da boschi, la risposta sarà nella stragrande maggioranza dei casi, “verde”. Di fatto, una montagna del genere appare, nelle condizioni indicate, azzurro chiaro, non verde e neppure marrone. Ciò che ci fa dire “verde” è il fatto che “sappiamo” che la montagna, essendo coperta di foreste, ha quel colore. Ma la domanda era che colore si osserva. Chi avesse dubbi riguardo a questo esperimento, può provare semplicemente a far un cerchio con le dita, puntarlo col braccio teso verso la montagna e osservare un piccolo pezzo di montagna attraverso il cerchio. Vedrà che a questo punto sarà chiaro che la montagna ha colore azzurro chiaro.

Dalla mia esperienza, con l’esercizio regolare di disegno alla lavagna il docente impara realmente a “vedere” meglio, e soprattutto, impara a vedere i colori realmente come sono, non come se li immagina. È un incredibile esercizio scientifico di oggettività percettiva. Si impara realmente ad osservare meglio il mondo. Questi sono requisiti che non possono mancare ad un docente di scienze presso una scuola Waldorf. Se non li ha quando inizia ad insegnare, non è troppo tardi per impararli. In realtà, non si smette mai di imparare, ed il disegno è veramente un grande aiuto in merito, anche per un adulto.

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Figura 8 – Benjamin Franklin che fa l’esperimento dell’aquilone. Disegno “Leitmotiv” di un’epoca di fisica di VI

Esiste poi un fattore più umano. Gli allievi sono stimolati ad impegnarsi nel disegno se vedono dei bei disegni fatti dal docente. Hanno più cura dei loro disegni se vedono che il docente ha cura dei suoi. Vedono ogni giorno una persona che lavora per loro nella pratica e questo funge da esempio per loro. Per gli allievi più deboli nella rappresentazione, questo lavoro del maestro è indispensabile. Ci saranno ovviamente anche allievi che disegneranno in modo indipendente da quanto il docente fa alla lavagna, ma sono pochi e di solito sono molto dotati per le materie artistiche. Ma la grande maggioranza trae a mio avviso grande beneficio dall’avere un modello di disegno e di disegnatore da seguire.

Personalmente, faccio ogni giorno, nella fase di Rappresentazione, i disegni degli esperimenti alla lavagna. Questi rimangono generalmente per 3-4 giorni a dipendenza della grandezza della lavagna, e sono un valido promemoria su quanto si è fatto nei giorni precedenti.

Faccio però quasi sempre anche un disegno importante, grande e molto curato, che vuole rappresentare un po’ il Leitmotiv, o il motivo conduttore dell’epoca. Soprattutto nelle medie, questo ha anche un’altra importanza pedagogica. I docenti delle elementari sanno che viene raccomandato di tenere in classe un’immagine, per ogni anno scolastico, che rappresenta in qualche modo lo sviluppo degli allievi a quell’età. Questa abitudine viene persa lentamente nelle medie, e, quando le epoche scientifiche vengono date da docenti “esperti”, cade del tutto (perché si fa lezione in un’altra aula).

Questa immagine può quindi essere sostituita da un bel disegno fatto alla lavagna in tema con l’epoca. Altre modalità di utilizzo pedagogico del disegno le porterà in seguito in relazione alle singole epoche.

Concludo con un consiglio per chi si volesse cimentare con questa attività. Nella mia esperienza, ciò che è stato chiave per cominciare a fare bei disegni è stato l’utilizzo del colore nero (gesso nero ma funziona anche il carboncino). Si pensa spesso che il nero non serva perché la lavagna è già scura. In realtà, la maggior parte delle lavagne sono verde scuro o grigio scuro, non nere. Col nero si riesce realmente a dare molta tridimensionalità ed i disegni diventano di conseguenza molto realistici.

Tra i ricordi che ho di quando ero bambino ed allievo alla scuola Steiner, sono rimasti impressi nella mia memoria singoli disegni alla lavagna. Ricordo l’aspettativa e lo stupore provati quando il maestro apriva la lavagna e c’era un nuovo bel disegno. Questi sono tutti elementi che, a mio modo di vedere, migliorano la formazione dei giovani uomini.

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Figura 9 – Lavagnata che include disegni di chimica e geografia

Come si prepara un’epoca

Includo in questa sede anche alcune considerazioni sulla preparazione di un’epoca.

La prima cosa fondamentale è che un’epoca è da considerarsi come un unico insieme organico e non un periodo durante il quale vengono insegnate in sequenza una serie di nozioni. Questo significa che anche in quelle epoche dove di fatto vengono insegnati diversi argomento (quasi tutte), il docente deve trovare un filo comune tra essi a portare regolarmente queste relazioni all’attenzione degli allievi. Un altro fattore molto importante è il modo stesso di portare l’epoca ad una determinata età. Rimando ad altre pubblicazioni i dettagli sullo sviluppo antropologico nelle varie età, e mi limito qui a portare un esempio su cosa si intende.

Per esempio, il professor Schulz di Kassel, in un seminario di formazione, ha illustrato come nell’epoca di chimica di VII lui porti sempre racconti di fatti reali relazionati con quanto sperimentato a scuola. Questi racconti hanno la caratteristica comune di essere sempre tragici, con esplosioni, incendi, avvelenamenti, morti, ecc. In VII classe questo, a detta del professor Schulz, è adatto ai ragazzi. Posso solo confermare la sua opinione. Durante una specifica epoca di VII, verso la fine dell’epoca ero a corto di storie tragiche, e ne ho raccontata una più leggera. Alla fine della storia vi era stato un solo morto per sua stessa negligenza. I ragazzi, parzialmente delusi, mi hanno subito fatto notare che un morto era troppo poco per una bella storia!

In maniera completamente antitetica, Schulz diceva che invece in VIII classe, sempre a chimica, non era il caso di portare storie di morti ma piuttosto storie più positive. In VIII, continuava, i ragazzi hanno sviluppato una sensibilità “umana” e troppi morti li rattristano un po’. Posso nuovamente confermare questa osservazione con l’esempio di una ragazza di VIII che un giorno, avendo sentito dalle notizie di una tragedia con diversi morti accaduta il giorno prima, è rimasta triste e parzialmente in lacrime per tutta la durata dell’epoca.

Con questo esempio volevo solo mettere in luce il fenomeno. Ogni uno potrà trovare, nella sua esperienza, il modo migliore per ogni età per portare un argomento. L’ideale sarebbe di sviluppare una sensibilità che permetta di comprendere lo stato d’animo generale che vive in una specifica classe, e di adattarsi di conseguenza.

Per andare sul concreto, dividerò il tema di questo capitolo in 2 possibili situazioni: docente di classe che porta nelle medie le epoche scientifiche e docente di materia.

Docente di classe che porta un’epoca scientifica

In genere, i docenti di classe hanno solo nozioni di base su materie come la fisica, la chimica e talvolta la matematica. Questo non significa però che non possano portare con successo una bella epoca in queste materie. Ricordo che l’elemento più importante è quello di portare l’atteggiamento ed il modo di procedere scientifico, e per fare ciò gli esperimenti sono un elemento chiave e possono essere fatti senza troppe difficoltà anche da docenti non esperti in queste materie.

I docenti di classe, in compenso, hanno un grandissimo vantaggio: avendo seguito la classe per anni, possono relazionare con gli allievi quanto di nuovo si sperimenta nelle epoche scientifiche con quanto già visto e vissuto in precedenza. Questa condizione è perfetta per “insegnare” a pensare come descritto sopra.

Cionondimeno, l’epoca va adeguatamente preparata. Idealmente si potrebbe procedere in questo modo. Un paio di mesi prima dell’inizio dell’epoca, il docente legge rapidamente (senza approfondire eccessivamente) la documentazione disponibile per quell’epoca. I due mesi che propongo come “anticipo” sul documentarsi hanno una ragione ben precisa: il docente deve anche lui “entrare” nell’epoca e nella materia, e questo avviene al meglio se ha del tempo per relazionare quanto di nuovo ha appreso nelle sue letture con la sua esperienza di vita. Inoltre, la lettura anticipata della documentazione permette al docente di cominciare a pianificare l’epoca e, nello specifico, gli esperimenti. Ogni scuola ha disponibilità diverse per quanto riguarda gli apparecchi e le strumentazioni necessarie per le epoche scientifiche, ed in questo modo il docente ha modo di cominciare a ragionare su quali esperimenti fare, cosa è possibile procurarsi con poca spesa, cosa non si può fare, ecc. Andrebbe fatta una lista indicativa di quali argomenti vengono trattati in quale settimana, e quali esperimenti vengono fatti per ogni argomento. Più avanti approfondisco.

Se la scuola possiede anche le superiori, nelle settimane prima dell’inizio dell’epoca è auspicabile che il docente di classe si incontri alcune volte con un docente di materia delle superiori onde conoscere il laboratorio (se presente), le strumentazioni e magari per provare alcuni esperimenti particolarmente complessi. Di nuovo, il docente deve “entrare” nella materia per poter trasmettere qualcosa di accessibile ai ragazzi, altrimenti diventa solo nozionismo oppure begli esperimenti “vuoti”, senza adeguati collegamenti concettuali (che è comunque preferibile al nozionismo).

Se la scuola non possiede le superiori, sarebbero necessari almeno alcuni incontri con altri docenti di classe con maggiore esperienza (hanno già dato l’epoca) o esperti esterni provenienti da altre scuole. In ogni caso, preparare un’epoca è un lavoro fondamentale che non può essere improvvisato sul momento.

Una volta che l’epoca è cominciata, affermo senza mezzi termini che ogni esperimento va provato almeno una volta il giorno prima, se non più volte (per esperimento complessi). Questo lavoro che appare molto oneroso non è trascurabile. Il docente deve conoscere nel dettaglio come fare ogni esperimento affinché riesca nel migliore dei modi (e che sia in piena sicurezza!). Se l’esperimento non riesce il giorno prima, è inutile sperare che con gli allievi andrà meglio. Questo può accadere una volta ogni 100, ma non è un modo pragmatico di procedere. Il docente deve provare a fare il più possibile “sua” la materia, prima di portarla ai ragazzi, e questo avviene tramite la sua curiosità e la sua esperienza.

Comprendo molto bene che quanto qui portato sarà molto difficile da realizzare per molti docenti. I docenti di classe sono notoriamente sempre sovraccarichi di lavoro, e pensare di impiegare mesi per preparare un’epoca è spesso un onere troppo grande. Semplicemente manca il tempo.

Confido che ogni uno farà del suo meglio, ed ho ritenuto comunque utile includere questo capitolo per dare una linea sul modo ideale di procedere.

Un consiglio per i docenti di classe: se il tempo non basta per fare tutto, ritengo più sensato dedicare maggiori forze alla preparazione delle lezioni (esperimenti, ragionamenti) che non alla correzione sistematica di tutti i testi dei ragazzi. In ultima analisi, lo scopo di un epoca scientifica è di insegnare il modo di procedere scientifico, non l’ortografia italiana. Quella verrà ampiamente trattata in molte altre epoche (storia, italiano, geografia, ecc.). Il risultato finale del lavoro fatto nell’epoca non può essere valutato unicamente in base ad un bel quaderno completo e scritto bene. Questo è certamente un valore aggiunto desiderabile, ma quello che è essenziale da apprendere a questa età, nelle materie scientifiche, è l’esercizio regolare di un modo di procedere scientifico e di un modo di pensare.

Un ultimo avvertimento. Ho visto spesso docenti che preparano le epoche scientifiche sulla base di quaderni degli anni precedenti. È certamente utile avere una traccia di questo tipo, anche perché così la scuola più in generale mantiene una linea coerente di anno in anno. Il lato negativo di questa pratica, se si limita unicamente all’utilizzo di quaderni di anni precedenti, è che anche ciò che magari non è completamente giusto viene ripetuto anno dopo anno per lunghi periodi. In particolar modo in Italia, ho notato che frequentemente ci si basa su quaderni fatti 30-40 anni fa, che non tengono conto dell’evoluzione e dei passi avanti fatti nella ricerca pedagogica per questa fascia di età. In diverse occasioni ho constatato docenti di classe che in VI classe facevano già più o meno il programma intero di VI, VII e VIII, tralasciando magari qualche importante argomento di VI (altrimenti il tempo non bastava). Questo determinava poi difficoltà negli anni seguenti per mancanza di materia nuova da portare.

Il quaderno fatto da un allievo inoltre non include mai tutto quanto è stato trattato nell’epoca, soprattutto per quanto riguarda i ragionamenti, eventuali storie e racconti fatti dal docente e che giustamente non sono stati riportati sul quaderno. Quindi, il quaderno di un allievo degli anni precedenti è certamente utile per sapere cosa è stato fatto, ma non può essere l’unico riferimento per un docente che voglia seriamente preparare una bella epoca scientifica.

Docente di materia

Come il docente di classe, se un docente di materia è nuovo nell’insegnamento delle scienze nelle medie è molto utile leggere la letteratura specifica con un paio di mesi di anticipo, o per lo meno con alcune settimane di anticipo.

Analogamente al docente di classe, è auspicabile in seguito procedere a stendere in forma scritta un programma di massima dell’epoca, che includa giorno dopo giorno (tenendo conto anche degli eventuali giorni settimanali di vacanza) quali esperimenti vengono fatti. Questo è necessario perché magari, nell’ambito di uno specifico argomento possono essere trattati diversi sotto-argomenti. Se però il tempo non basta, si può decidere in piena coscienza di tralasciare un sotto-argomento e quindi evitare di fare esperimenti che, da soli, non permetterebbero di cogliere quanto previsto da quel sotto-argomento.

Per fare un esempio: nell’epoca di fisica di VI, in elettrostatica, è possibile portare anche il tema di “isolante” elettrico. Questo sotto-argomento prevede almeno 3-4 esperimenti diversi. Se non è possibile farne almeno 2, è meglio tralasciare l’intero sotto-argomento piuttosto che fare un solo esperimento e poi dover “completare” il tema con nozioni date dal docente. Questo tipo di analisi però è solo fattibile se si pianifica adeguatamente l’epoca in anticipo.

Questo è un esempio di programma di questo tipo fatto da me per un epoca di fisica in VII classe.

Lunedi 06.10

  • Esperimento diapason
  • Esperimento diapason in acqua
  • Esperimento diapason sul corpo

Martedì 07.10

  • Diapason sugli oggetti
  • Traccia del diapason

Mercoledì 08.10

  • Levigatrice a manovella

Giovedì 09.10

  • Candele fantasma
  • Spazio dello specchio

Venerdì 10.10

  • Ombre misteriose
  • Scrittura impossibile (inversione sinistra-destra)

E così di seguito includendo tutta l’epoca.

Un programma di questo tipo è ovviamente indicativo, e verrà sicuramente modificato in corso d’opera. È però estremamente utile per avere una panoramica generale e per decidere quali argomento verranno trattati in modo sufficientemente completo da fornire ai ragazzi elementi utili di comprensione. Vi è poi una seconda utilità. Negli anni seguenti si avrà già una traccia percorribile dell’epoca. Dai miei appunti constato che ogni anno ho rifatto questo programma, modificandolo sulla base di cosa era funzionato meglio e cosa poteva essere migliorato. Si crea quindi negli anni anche la possibilità di evolvere il proprio lavoro sulla base delle tracce del lavoro degli anni precedenti.

Se il tempo è sufficiente, il lavoro di preparazione della prima epoca può essere ancora più completo. In diverse occasioni, quando ho preparato per la prima volta un’epoca, ho fatto anche una lista completa dei materiali e delle sostanze necessarie per ogni esperimento onde verificare cosa era fattibile con quanto già disponibile a scuola, cosa era fattibile con una piccola spesa, e cosa avrebbe richiesto un onere finanziario troppo elevato per la scuola e quindi doveva essere tralasciato.

Includo una di queste liste fatta per un’epoca di chimica in X classe. Questa lista in realtà era stata fatta ad uno stadio ancora precedente, prima che avessi scelto gli esperimenti che intendevo fare, ed avevo quindi incluso tutti gli esperimenti consigliati da M. von Mackensen rimandando più avanti la scelta effettiva degli esperimenti. A questa lista ne è poi seguita una seconda, con gli effettivi esperimenti scelti sulla base dei vari criteri espressi in questo capitolo (coerenza del programma, temi da trattare, materiali disponibili, tempi, durate, ecc.).

Possibile percorso sperimentale
Tema Esp Descrizione Materiale necessario Sostanze necessarie
1° giorno    
I Sali 1a Toccare attraverso un telo degli oggetti per definirne forma, superficie, peso in relazione alla dimensione, sensazione di calore Guscio di lumaca, pigna di pino, quarzo, cristallo di salgemma, sasso di arenaria, pezzo di ferro o rame  
I Sali 1b Si toglie il telo e si aggiungono ulteriori cristalli salini. Viene testato il colore, la trasparenza, la forma, la durezza, il gusto, ecc. Fare vedere i miei cristalli   Ulteriori Sali cristallizzati
I Sali 4 Si pone un grosso cristallo colorato in un bicchiere di 2 l e si osserva nei giorni l’alone colorato che si crea Becher di 2 l solfato di rame
I Sali 5 Si mette in un becher di 2 l circa 1400 ml di acqua calda e si aggiungono 100 ml di sale macinato grosso. Sul fondo si osserva una sorta di gel. Si scalda e lo si osserva nei suoi movimenti becher di 2 l Sale grosso
I Sali 5a Porre il contenitori di 5 l davanti alla finestra e si pone una striscia di cartone dietro osservando la diffrazione Striscia di cartone  
I Sali 5b Si mette dell’acqua dalla superficie e di soluzione dal fondo in una provetta e si testa la temperatura, il gusto e il galleggiamento 2 provette  
I Sali 5c Si mette un uovo non troppo fresco nel grande becher. Galleggia sulla linea della soluzione Uovo  
I Sali 5d Si inclina il bicchiere e si osserva che in superficie si calma subito ma non sulla linea con la soluzione salina    
I Sali 5e Si testa la sensazione sulle dita dell’acqua normale e della soluzione    
2° giorno    
I Sali 6 Si pone un piccolo filtro per te contenente un cristallo di permanganato di potassio sotto la superficie dell’acqua. Illuminare indirettamente (con filtro di carta) da dietro Cilindro degli esperimenti del vortice Permanganato di potassio
I Sali 7a Si riscaldano fino a 70° 440 gr. Di salnitro con 0.5 l di acqua. Si distribuisce in bicchieri di 100 ml ogni 2 alunni. Si assaggia (sputare) Diversi bicchieri per gli allievi Salnitro (KNO3)
I Sali 7c Si può fare l’esperimento con cloruro di potassio. Si creano bei cristalli   KCl
I Sali 8 Cristalli di sale. Ogni allievo porta un bicchiere di 250 ml di marmellata, una matita, un sassolino, un secondo contenitore, in cui viene messa una soluzione di Solfato di rame, allume di potassio, allume di cromo, cloruro di rame a scelta. Si appende il sassolino con un filo nella soluzione e si attendono giorni pulendo regolarmente dai parassiti Ogni allievo due bicchieri, matita, sassolino, filo Solfato di rame (CuSO4), allume di potassio (KAl(SO4)2), allume di cromo ( KCr(SO4)2), cloruro di rame (CuCl2)
I Sali 9 Su di un piatto si pongono legno, carbone, sabbia e terra e si aggiungono diverse soluzioni sature di Sali (solfato di rame, salnitro, Allume di cromo, ferricianuro di potassio), Si pone sul calorifero Piatto, legno, carbone, terra, sabbia ferricianuro di potassio (K4[Fe(CN)6])

Il programma permette anche, in corso d’opera, di assicurarsi che non verrà tralasciato un intero argomento (che, come detto in precedenza, non è auspicabile). Spesso ci capita che all’ultimo momento ci rendiamo conto di un giorno di vacanza in settimana di cui non avevamo forse tenuto conto. O forse capita che un esperimento non funziona a dovere e lo si vorrebbe ripetere. Oppure ancora, ci sono le visite dal dentista (di cui non si sapeva nulla fino al giorno precedente) che svuotano la classe. Questi imprevisti portano spesso a ritardare l’epoca e se non si ha in chiaro dove si vuole arrivare, si può rischiare di saltare un intero argomento per mancanza di giorni verso la fine dell’epoca.

In genere, dopo queste fasi preliminare, comincio a stendere un programma dettagliato giorno per giorno, indicando anche cosa intendo fare per ogni fase delle 3 fasi della lezione. Questo lavoro a volte non è affatto facile. La documentazione disponibile da altri autori è in genere di buona qualità, ed il lavoro è relativamente facile in quelle materie che sono molto sperimentali (fisica e chimica). Per le materie meno sperimentali, come la matematica e la geometria per esempio, raramente viene posto l’accento sull’aspetto didattico della tripartizione. È allora necessario studiare il libro in questione, separare i tre aspetti e ristrutturare la lezione secondo questo criterio.

A fine epoca è auspicabile scansionare un quaderno di un allievo da tenere nei propri atti. L’utilità di questo lavoro è duplice: in primo luogo l’anno seguente si avrà la traccia effettiva di quanto fatto l’anno precedente, ed in riferimento alla classe stessa, l’anno seguente (se si è ancora il docente) si saprà da dove riprendere il lavoro. Inoltre, se il docente dovesse cambiare, si può dare al nuovo docente la traccia di quanto quella classe ha già fatto. In poche parole, documentare.

La mia esperienza ha mostrato che il docente realmente interessato è in grado di migliorare di anno in anno la stessa epoca. Ogni volta si scopre qualcosa di nuovo, si desidera fare nuovi esperimenti che portano alla nostra attenzione (e a quella dei ragazzi) aspetti che l’anno precedente non erano stati trattati, o erano stati trattati solo marginalmente. C’è sempre qualcosa da imparare, e una documentazione ben fatta su quanto fatto in precedenza permette di concentrarsi ogni anno su qualcosa di nuovo.

Verifiche

C’è poi il tema delle verifiche. Come linea di base, non sono molto favorevole alle verifiche di fine epoca per la natura stessa del nostro modo di insegnare. Se abbiamo ben operato, a fine epoca è necessario il cambiamento di tema (nuova epoca) per lasciare decantare nel silenzio quanto di nuovo è stato sperimentato dai ragazzi. Questo si allinea con quanto riferito da Steiner stesso. Se la verifica è però necessaria per stilare una pagella minimamente oggettiva, è preferibile seguire quanto proposto da M. von Mackensen, e richiedere nella stessa la ripetizione di un esperimento, piuttosto che le considerazioni derivate dall’insieme di una serie di esperimenti. Questa modalità inoltre permette di rendere il momento della verifica un ulteriore momento di apprendimento.

Cito Mackensen direttamente dal libro sulla chimica per la VII e l’VIII classe[21]:

Suggerimenti per compiti scritti da far fare ai ragazzi

Possibilità e limiti di controllo

È chiaro che l’insegnamento non è fatto in funzione del controllo del metodo di insegnamento, ma per la vita. Il successo individuale e in parte fatale della vita – rendimento della vita – non può essere misurato e valutato obiettivamente. Ogni controllo fatto subito dopo la spiegazione di un certo argomento, non potrà che essere parziale. Ma lo è anche sotto un altro punto di vista. Nella valutazione delle manifestazioni e delle descrizioni dei comportamenti dei ragazzi, non vengono considerati, per forza di cose, tutti quei successi, nell’educazione e nel processo di apprendimento, che non si manifestano o non vengono percepiti nel loro giusto valore perché controllati continuamente da parametri limitati a determinate situazioni o perché necessitano di stimoli particolari per esternarsi. Questo vale soprattutto per l’apprendimento non nozionistico. Senza addentrarsi nella problematica della misurazione del successo dell’insegnamento e senza nemmeno affrontare l’abbondante letteratura che tratta di questo argomento, vogliamo ora chiarire i punti in cui si può applicare un controllo che vada nel senso del nostro concetto di insegnamento.

Osservazioni del successo all’interno del concetto spiegato

All’insegnamento che ha come scopo l’apprendimento puramente cognitivo, basta un controllo limitato a domande e risposte relative alla materia trattata, o ad un sistema che conduca all’indicazione di nuovi legami e nuove strutture, all’elaborazione di determinati valori sotto nuovi punti di vista, o addirittura alla derivazione di strategie finalizzate alla soluzione di problemi (Transfer). Ne derivano quei test suddivisi da item, che possono venir considerati uno strumento trasparente per il giudizio dell’insegnamento e dell’apprendimento.

Per tener conto degli scopi pedagogici generali, come cerchiamo di fare in questa aggiunta, bisogna tentare di distanziarsi da quei test che hanno oggi un peso così grande.

Ci sembra più opportuno non fabbricare, come singoli items, in anticipo un test da sottoporre poi ai bambini come catalogo di domande. Bisogna piuttosto cercare di ottenere dai ragazzi la descrizione di un dato argomento nei suoi diversi aspetti sotto forma di componimento. Soltanto dopo il maestro potrà stabilire fin dove i ragazzi hanno ritenuto utili e importanti le stesse cose che più stavano a cuore a lui, quelle cioè importanti per l’argomento trattato.

I temi vengono presentati in maniera volutamente molto generica. Non devono indurre i ragazzi a ricapitolare soltanto concetti e termini specifici, ma devono trasmettere, nello svolgimento della materia e nel modo di strutturarla, anche sensazioni legate ai diversi esperimenti e alle osservazioni qualitative dell’insegnamento. Quando si valuteranno queste strutture, bisognerà ricordarsi che i ragazzi, scrivendo, continuano ad elaborare la materia. In questo tipo di compiti in classe non si tratta soltanto di ricordare quanto trattato. L’allievo deve invece affrontare una nuova attività, penetrando nella materia trattata e considerandola al tempo stesso nel suo insieme. Non si tratta soltanto di sapere, ma anche di descrivere e strutturare le esperienze; vuol dire che bisogna saper presentare da un punto di vista oggettivo delle relazioni emozional-affettive con valore qualitativo che contengono al tempo stesso anche delle componenti estetiche, per non dire etiche. In questo caso avrà sempre necessariamente quel processo chiarificatore iniziato nell’insegnamento: distanziare e oggettivare. I temi dovrebbero trasmettere questo e comprendere campi in relazione fra di loro. Il loro compito non è soltanto quello di allettare con trovate facilmente valutabili, ma di fornire ai ragazzi gli stimoli necessari ad una elaborazione sensata in quel periodo di tempo. Il sistema di controllo diventa al tempo stesso un modo di imparare.

Per poter preparare lavori in classe di questo tipo, ci vuole un po’ di tempo. Bisognerà dunque “provare” prendendo degli esempi, nel senso che si dovrà, per ragioni di tempo, rinunciare a rivedere tutto quanto è stato trattato. È addirittura meglio dare ai ragazzi una certa possibilità di scelta per quanto riguarda i tempi, in modo che, in ogni caso, il tempo serva effettivamente ad andare a fondo di un certo argomento che i ragazzi non solo conoscono, ma nel quale possano diventare attivi con interesse. In questo senso i temi sono legati alla sequenza seguita effettivamente nell’insegnamento e non possono, analogamente, essere stabiliti minuziosamente in precedenza.

Passiamo ora a discutere gli esempi di compiti da fare in classe.

Chiarimenti sulla composizione e sulla valutazione di temi per lavori in classe

I ragazzi possono scegliere fra questi due temi relativi allo svolgimento dell’insegnamento per una elaborazione della durata di un’ora (60 min):

1) descrivi in maniera chiara anche con disegni come si può suddividere il fuoco, come s’infiamma un fuoco di legna, come diminuisce e termina di bruciare nella brace. Descrivi anche le osservazioni che si possono fare in questo processo, nell’aria e nell’ambiente circostante.

2a) Paragona fra loro i diversi tipi di fuoco. Descrivi dettagliatamente, anche con disegni, come bisogna mettere in atto gli esperimenti e l’effetto che producono sull’osservatore.

2b) Secondo quali principi (punti di vista) possono essere ordinati?

In entrambi i temi il campo d’azione dei fenomeni presi in considerazione non è molto esteso e il tema stesso indica, specialmente nel primo, la strada da seguire:

a) descrizione dell’esperimento

b) disegno dell’esperimento

c) descrizione delle sensazioni durante l’esperimento

d) un ordine comprensibile o una sequenza degli esperimenti. Nel secondo tema questo deve già essere presente in modo cosciente, dato che si tratta di paragonare delle cose.

e) il secondo tema chiede non soltanto di utilizzare il punto di vista dell’ordine della sequenza degli esperimenti, ma di spiegarla.

Il secondo tema chiede qualcosa che va oltre il primo. I lavori dei ragazzi possono essere valutati dal maestro secondo l’ordine grossolano indicato sopra. Quali siano i riferimenti particolari (oggetti) che si devono esigere, dipende dallo svolgimento delle lezioni che precedono e dai suoi sottili scopi. Anche la valutazione del compito del singolo allievo che determini l’impegno individuale, dipende dallo svolgimento dell’insegnamento e in più dalla personalità dell’allievo stesso; la premessa è che l’insegnante conosca i ragazzi da molto tempo.

Per chiarire meglio discutiamo altri temi di compiti:

Esempio di tema

Disegna con delle matite colorate un fuoco di legna semplice, nel quale si veda la parte che tende verso l’alto per perdervisi, l’altra parte che scende verso il basso. C’è Qualcosa che sta piuttosto all’interno del fuoco e qualcos’altro che sta piuttosto nell’ambiente intorno. Possiamo nominare queste singole manifestazioni: fumo denso, fumo, scintille, lingue di fuoco chiare, apparizione di fiamme azzurre, brace, carbone, legno non ancora bruciato, cenere.

Questo tema richiede minore impegno rispetto ai due precedenti. Si darà di conseguenza soltanto mezz’ora di tempo per svolgerlo. In fondo si tratta di rifare uno dei disegni che nella maggior parte dei casi è già stato fatto nel quaderno di chimica.

Nel modo di dipingere il disegno si riesce ad esprimere in maniera limitata le sensazioni richiamate dalla formulazione qualitativa del tema (“tende verso l’alto”). I dettagli da considerare sono dati, bisogna soltanto metterli al posto giusto e non è necessario rendere comprensibile o formulare l’ordine concettuale. Con questa premessa si pone questo tema al livello inferiore di quello che cerchiamo di ottenere per quanto riguarda le possibilità individuali e spontanee di rappresentazione e di conseguenza la maniera di fissare i singoli avvenimenti da parte degli allievi.

Esempio di tema

a) Come si possono ottenere acidi e liscive bruciando vegetali;

b) Che effetto hanno sul succo di cavolo rosso?

c) Come cambia il colore acido del succo di cavolo con l’aggiunta di lisciva?

In questo caso si chiede provenienza e controprova di acidi e liscive. Si tratta di descrivere con i termini appropriati i fatti osservati e trattati a fondo. Non si dice come devono essere capiti questi fatti. Ad es.: perché questa classe di sostanze si forma proprio nel fuoco, perché l’acido sotto forma di gas (cioè “verso l’alto”), perché producono un effetto sui succhi vegetali, perché cessano questi effetti? Chiaramente non si può rispondere nemmeno fenomenologicamente a queste domande perché vengono tolte da un complesso di relazioni. Ma non è questo che cerchiamo di ottenere (disposizioni nel testo principale). Questo ci dà però modo di osservare come un compito che abbia come scopo soltanto la riproduzione di un dato fatto, impegni un piccolo settore delle funzioni spirituali dell’allievo. Un impegno totale – e non dovrebbe mai essere tale – dovrebbe racchiudere compenetrazione comprensibile e relazioni razionali dei fatti fra di loro. La formulazione del tema data sopra sembra quindi essere più opportuna.

Esempio di tema

Descrivi come da parti vegetali unitarie nascano sostanze opposte (verso l’alto e verso il basso). Confronta la natura particolare di queste due sostanze e descrivi i diversi effetti nell’acqua, nei succhi vegetali e infine fra loro.

In questa forma il tema risulta più ricco ma anche più aperto a paragoni di qualità e valore. Acido e lisciva non vengono descritti come sostanza A e sostanza B, ma possono essere presi in considerazione come manifestazioni interdipendenti e concettualmente come unità, cioè come varianti di uno stesso fenomeno. Il tema dà spazio ad uno sviluppo totalmente diverso e più semplice.

Esempi di tema

Come è costruito un forno e perché ha bisogno, di un camino? Disegna un esempio. Descrivi come si fanno funzionare i forni.

Come deve essere fatta l’attrezzatura che serve ad ottenere malta di calce e cosa bisogna fare perché, nei muri, indurisca?

Entrambi questi temi stimolano una esposizione strutturata e logicamente costruita dei fatti e dei relativi concatenamenti obiettivi. Lo scolaro adopera inoltre una forma semplice di fantasia costruttiva: deve ad esempio essere in chiaro sulle esigenze tecniche caloriche di un camino o di un forno per la combustione del calcio in modo da poter descrivere -nel caso ideale- la costruzione partendo da questa domanda-chiave. Lo scopo tecnico deve essere idealmente capito per poter condurre ad un sistema di dati di fatto legati fra loro. Si stimola in questo modo il pensiero causale.

L’osservazione fenomenologica qualitativa viene superata dagli scopi tecnici stabiliti dall’uomo. Può essere rimessa in gioco trattando argomenti storico culturali o sociologici, come indicato, ad esempio, nell’evoluzione dei forni (vedi testo principale).

Per esperienza posso dire che in questa fascia d’età si può completare un insegnamento basato piuttosto sulle immagini, lasciando che i ragazzi si occupino una volta anche di temi tecnici dal punto di vista puramente pratico e causale.

Per concludere, in quelle scuole in cui viene ancora portato il cosiddetto “giudizio” scritto a fine anno affiancato forse da una pagella numerica, consiglio vivamente di rivedere i quaderni e stendere il giudizio poco tempo dopo la fine dell’epoca onde potersi basare anche sul ricordo diretto di come gli allievi si sono relazionati con la materia. Se si attende la fine dell’anno sarà più facile fare confusione con allievi di altre classi (considerazione relativa ai maestri di materia).

***

Seguono le pubblicazioni per materia in cui viene fatta una proposta pratica di come operare giorno per giorno in ogni epoca.

Includo in questa sede alcune pagine della prima pubblicazione specifica sulla fisica onde dare un’idea del percorso proposto.

L’insegnamento delle scienze nelle medie e nelle superiori

secondo il metodo scientifico goetheanistico

quale strumento per insegnare il pensare autonomo

Volume II

Fisica

VI, VII e VIII classe

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Mirko Kulig

Indice

Indice 1

VI classe 1

Primo giorno 2

Secondo giorno 3

Terzo giorno 4

Quarto giorno 5

Quinto giorno 8

Sesto giorno 9

Settimo giorno 10

Ottavo giorno 11

Nono giorno 12

Decimo giorno 13

Undicesimo giorno 14

Dodicesimo giorno 15

Tredicesimo giorno 16

Quattordicesimo giorno 17

Quindicesimo giorno 19

Sedicesimo giorno 20

Diciassettesimo giorno 22

Diciottesimo giorno 23

Diciannovesimo giorno 24

Ventesimo giorno 25

VII classe 25

Primo giorno 25

Secondo giorno 26

Terzo giorno 27

Quarto giorno 28

Quinto giorno 29

Sesto giorno 31

Settimo giorno 32

Ottavo giorno 33

Nono giorno 34

Decimo giorno 36

Undicesimo giorno 37

Dodicesimo giorno 38

Tredicesimo giorno 39

Quattordicesimo giorno 41

Quindicesimo giorno 42

VIII classe 43

Primo giorno 43

Secondo giorno 44

Terzo giorno 45

Quarto giorno 46

Quinto giorno 47

Sesto giorno 48

Settimo giorno 50

Ottavo giorno 52

Nono giorno 53

Decimo giorno 54

Undicesimo giorno 55

Dodicesimo giorno 56

Tredicesimo giorno 56

Quattordicesimo giorno 57

Quindicesimo giorno 59

Sedicesimo giorno 60

Diciassettesimo giorno 61

Diciottesimo giorno 62

Diciannovesimo giorno 63

Ventesimo giorno 64

Ventunesimo giorno 65

Ventiduesimo giorno 66

Ventitreesimo giorno 67

VI classe

L’epoca di fisica di VI classe è un momento chiave del percorso di formazione dei ragazzi per diverse ragioni. Innanzitutto, è la prima epoca di fisica prevista nel piano di studi Waldorf, la sua durata prevista è di ben 6 settimane, quindi o due epoche da 3 settimane, o un’epoca da 4 ed una da 2 settimane (secondo Mackensen sarebbe meglio fare questa seconda possibilità), è la prima epoca che dovrebbe essere fatta, almeno in parte, in un’altra aula (l’aula di scienze) e più in generale è la prima epoca in cui i ragazzi si trovano confrontati con un modo nuovo di conoscere il mondo, un modo più scientifico ed analitico, viene lentamente attivato il pensare.

È molto importante mettere l’accento su lentamente. Il passaggio da quanto conoscono i ragazzi a questo nuovo modo di approcciare il mondo deve essere graduale, non netto.

In questo contesto, ho fatto un’ottima esperienza una volta in cui, insieme alla maestra di classe, abbiamo preparato quest’epoca insieme.

A livello logistico, abbiamo cominciato l’epoca in classe, andando in aula di musica per l’esecuzione musicale e poi tornando in classe per il resto della lezione di epoca. Tutta l’acustica (il primo argomento dell’epoca) l’abbiamo fatta in classe. Con l’ottica, nella seconda settimana, abbiamo cominciato ad andare in aula di fisica per fare gli esperimenti, tornando poi di nuovo in classe per il resto della lezione. Dopo le prime due settimane di epoca, ci siamo spostati in aula di fisica per tutto il resto della stessa. In questo senso, l’abitudine a nuovi ambienti di lavoro è stata molto graduale e senza traumi. Ritengo comunque importante utilizzare anche l’aula di fisica perché questo dà ai ragazzi la sensazione che “finalmente sono nel mondo dei grandi”, è uno stimolo alle forze dell’io e dell’auto responsabilizzazione.

Il programma come proposto da Manfred von Mackensen prevede acustica nella prima settimana. Si comincia idealmente con un concertino di strumenti e si fanno tutta una serie di osservazioni che illustrerò tra poco. Ciò che volevo aggiungere in merito a questo modo di iniziare questa prima epoca è che si vuole introdurre la fisica partendo da qualcosa che i ragazzi conoscono già bene, gli strumenti musicali. Quanto verrà portato in questa prima settimana non è sconosciuto ai ragazzi ma anzi, generalmente in una scuola Waldorf a quest’età quasi tutti suonano uno strumento. Quello che cambia è che ci concentriamo sull’osservare con attenzione cosa accade, e creiamo eventuali collegamenti iniziali (pensare) tra diversi elementi noti. Nella prima settimana non parliamo ancora di esperimenti. Quando introduciamo gli esperimenti (con l’ottica nella seconda settimana), il mio consiglio è di nominarli con numero crescente per tutta l’epoca il giorno stesso in cui si fanno gli esperimenti (quindi Esperimento 1, esperimento 2, …, esperimento 35), e dare poi un titolo all’esperimento il giorno dopo quando si ha rielaborato l’esperimento col pensare. I nome possono anche scaturire da una proposta di un allievo, oppure possono essere pensati in anticipo dal docente per renderli significativi. Preferisco non dare subito il titolo dell’esperimento perché, per essere significativo, potrebbe già fornire una sorta di spiegazione dell’esperimento, cosa che vogliamo evitare il giorno in cui l’esperimento viene eseguito.

Per una trattazione molto più approfondita rimando al volume Suono, luminosità, calore di Manfred von Mackensen, sul quale mi sono basato per gli argomenti e per gli esperimenti proposti in questa pubblicazione. Raccomando di non prendere questa pubblicazione come una ricetta del percorso dell’epoca ma piuttosto come un esempio di didattica. Nel libro di Mackensen vi sono molti più esperimenti che è possibile fare rispetto a quanto presentato in questa sede.

In Italia esistono vari quaderni molto vecchi su cui diversi docenti basano ancora oggi la preparazione dell’epoca. Sconsiglio vivamente di basarsi su tali documenti, perché ho notato che spesso tendono ad anticipare argomenti previsti per classi più alte.

Ciò su cui voglio porre l’accento in questo volume è l’aspetto didattico della tripartizione della lezione di epoca. Mi limiterò a presentare un’epoca di 4 settimane (20 giorni di scuola) per semplicità.

Si noterà che talvolta, nella fase di Concetto (il giorno dopo), viene ripetuto, con altri termini ed in maniera chiara e ordinata, quanto scaturito dall’esperimento. Alcuni esperimenti hanno il semplice scopo di mostrare un fenomeno. Come già detto nel volume I, non è sempre necessario arrivare ad una spiegazione definitiva ed esaustiva. Si constata che una parte di mondo si comporta in un certo modo. In casi del genere, la discussione durante la fase di Concetto, dopo avere affermato in maniera chiara il risultato delle osservazioni (o, meglio, lo si fa affermare ad un allievo), si può raccontare di fenomeni del mondo più ampio in cui si osserva qualcosa di simile a quanto visto in laboratorio.

Nella Filosofia della libertà Rudolf Steiner mette in evidenza il fatto che, prima del pensare, c’è il processo di osservazione[22]:

Per quanto riguarda l’osservazione, è una caratteristica della nostra organizzazione averne bisogno. Il nostro pensare un cavallo e l’oggetto cavallo sono due cose che ci appaiono separate. E l’oggetto ci è accessibile solo attraverso l’osservazione. Come non possiamo farci un concetto di cavallo soltanto osservandone uno, così non siamo in grado di suscitare l’oggetto corrispondente mediante il solo pensare.

Nel tempo, l’osservazione precede anzi il pensare, perché dobbiamo imparare a conoscere anche il pensare attraverso l’osservazione.

(la sottolineatura è mia)

Nell’epoca di VI classe ci sarà quindi un forte orientamento all’osservazione.

Primo giorno

Dopo un’introduzione generale sull’epoca ci spostiamo in aula di musica. In quest’ introduzione si può semplicemente chiedere agli allievi, per esempio, cosa pensino sia la fisica. Si raccolgono le varie idee, si chiedono magari più dettagli, non si correggono eventuali idee non completamente giuste. Lasciamo che scoprano da soli nel prossimo mese cosa sia la fisica.

Percezione

Idealmente Mackensen propone un concertino di un quartetto di archi. Non essendo riuscito ad organizzarlo, in diverse occasioni ho suonato io stesso un corto brano su 4 strumenti diversi. Nella fattispecie, sull’arpa, sul pianoforte, sulla chitarra e sul banjo.

Rappresentazione

Dopo il concertino si torna in classe e si raccolgono, per iscritto, le osservazioni fatte:

Chitarra:

  • 6 corde
  • Dimensioni: medie
  • Mano destra: pizzica le corde
  • Mano sinistra: preme le corde sui tasti
  • Suono metallico, medio alto
  • Si può suonare sia in piedi che seduti

Pianoforte:

  • 88 tasti (36 neri, 52 bianchi)
  • Dimensioni: grandi
  • Le mani premono entrambe i tasti
  • Suono: pieno, rotondo morbido
  • Si suona seduti

Banjo:

  • 5 corde
  • Dimensioni: medio-piccole
  • Mano destra: pizzica le corde
  • Mano sinistra: preme le corde sui tasti
  • Suono: metallico, forte, squillante, verso l’alto
  • Si suona sia in piedi che seduti

Arpa celtica:

  • 34 corde
  • Dimensioni medio-grandi
  • Mani: pizzicano entrambe le corde
  • Suono: soave, delicato, spinoso, fine
  • Si suona seduti
  • Si possono suonare i diesis alzando le chiavette

La descrizione dell’esperienza, richiesta dai ragazzi per il giorno dopo, sarà molto semplice. Qualcosa del genere:

Oggi abbiamo cominciato l’epoca di fisica. Siamo andati in aula di musica ed il maestro ha suonato delle canzoni su quattro diversi strumenti: chitarra, arpa, pianoforte, banjo. Abbiamo poi fatto le seguenti osservazioni (segue la lista delle osservazioni per ogni strumento data sopra).

C:\Users\Windows10\AppData\Local\Microsoft\Windows\INetCache\Content.Word\Concertino di strumenti.jpg

Figura 1 – Concertino di strumenti

Dopo aver raccolto le idee, si procede col disegno. In questo caso, essendo il disegno abbastanza complesso, in genere l’ho preparato il giorno precedente.

Secondo giorno

Concetto (del giorno precedente)

Si riassume l’esperienza, si danno 2 minuti ai ragazzi per rileggere la loro relazione, e si fanno leggere un paio di relazioni (questa parte non è propriamente elemento integrante della fase di Concetto).

Si ragiona quindi su quanto visto e udito. In che modo vengono prodotti i suoni? Abbiamo visto 2 modalità distinte: pizzicare le corde, premere i tasti. Nell’arpa si pizzica solo, nel pianoforte si preme solo, nella chitarra e nel banjo si fanno entrambe le azioni, una con una mano e l’altra con l’altra mano. Cosa accade quando premo i tasti del pianoforte? Un martelletto colpisce le corde. Cosa sto facendo quando premo i tasti della chitarra e del banjo? (lasciamo aperta la domanda).

Percezione

  1. Si ritorna nell’aula di musica e vengono suonati due brani, uno con la chitarra, l’altro con l’arpa. L’attenzione ora si pone su cosa fanno le due mani nel suonare i due strumenti.
  2. Osserviamo le caratteristiche dell’arpa e di come vibrano le corde. Si può attaccare un piccolo pezzo di carta nel centro di una corda grave per rendere ancora più visibile la vibrazione.

Rappresentazione

Si torna in aula di classe e si raccolgono le osservazioni sulla prima esperienza:

Chitarra:

  • Il pollice destro fa le note basse
  • Le altre dita fanno le note alte, la melodia
  • Le note alte sono tante e brevi
  • Le note basse sono poche e lunghe

Arpa celtica:

  • La mano sinistra fa le note basse
  • La mano destra fa le note alte, la melodia
  • Ci sono 2 note basse ogni 6 note alte

Raccogliamo le osservazioni sulla seconda esperienza:

  • Le corde lunghe hanno un suono grave, prolungato (fino a 23 secondi), con oscillazioni ampie, soprattutto al centro. Sono spesse e di metallo.
  • Le corde corte hanno un suono acuto, breve, (1-2 secondi), le oscillazioni quasi impercettibili. Sono sottili e di nylon.

Disegno e descrizione delle esperienze (anche a casa).

………..

VII classe

Nell’epoca di fisica di VII classe vengono ripresi tutti gli argomenti di VI classe a cui si aggiunge la meccanica. In generale, se sono disponibili solo 3 settimane, Mackensen consigliava di trattare tutti gli argomenti facendo meno esperimenti per ogni uno piuttosto che saltare un interno argomento. Questo è sensato perché gli stessi argomenti si riprendono poi in VIII e saltarne uno significa perdere la continuità.

Per semplicità presenterò la tripartizione dell’epoca su 3 settimane (15 giorni di lezione). Ribadisco che una trattazione molto più completa si trova nel libro di Manfred von Mackensen Suono, luminosità, calore.

Primo giorno

Nel discorso introduttivo si può ricordare per esempio quanto trattato l’anno precedente.

Percezione

Esperimento 1 – Il diapason

Prendiamo un diapason e percuotiamolo con l’apposito martelletto di gomma in 3 punti ascoltando il suono:

  • Da sopra su un ramo della forcella
  • Dal lato di un ramo della forcella
  • Frontalmente un ramo della forcella

Nella prima prova sentiamo 2 note, una alta ed una bassa. Quella alta è molto forte, quella bassa è debole.

Nella seconda prova sentiamo sempre le due note e sono tutte e due forti.

Nella terza prova sentiamo la nota alta molto forte e quella bassa molto debole.

Possiamo anche provare a percuotere il diapason con il manico di legno del martelletto. Il suono è molto acuto.

Esperimento 2 – Il diapason in acqua

Percuotiamo un diapason e immergiamo i due rami in una bacinella di acqua. Si crea una spruzzo laterale ed uno verticale che parte dal centro della forcella, si ode un leggero abbassamento della nota che si smorza in poco tempo.

Percuotiamo nuovamente il diapason e immergiamo un solo ramo nell’acqua. Si crea uno spruzzo di acqua laterale, avviene un abbassamento della nota ma questa dura più a lungo rispetto alla prova precedente.

L’esperimento va ripetuto più volte per chiarire esattamente come si creano gli spruzzi e che direzione hanno.

Esperimento 3 – Il diapason sul corpo

Se disponibili, vengono distribuiti diversi diapason agli allievi e si chiede loro di fare le seguenti prove. Dopo averli percossi (sul ginocchio per esempio), i diapason vengono appoggiati su varie parti del corpo (dito, lingua, naso, labbra) percependo bene la sensazione che danno. Si può eventualmente anche appoggiare la base dei diapason sulla testa (aprire la bocca).

Rappresentazione

Riepilogo degli esperimenti a memoria prendendo appunti e disegno.

Secondo giorno

Concetto

Si riassumono gli esperimenti a parole, si danno 2 minuti ai ragazzi per rileggere le loro relazioni, e si fanno leggere un paio di relazioni.

Possiamo caratterizzare i due suoni uditi dopo aver percosso il diapason come metallico-acuto l’uno e più grave e piacevole l’altro. Il suono grave viene maggiormente in evidenza quando si percuote il diapason lateralmente su di un ramo (vicino all’estremità). Non tutti gli allievi sanno che il diapason veniva e viene tutt’ora utilizzato per accordare gli strumenti perché il suo suono “non si scorda”, rimane sempre pressoché uguale.

Negli esperimenti 2 e 3 abbiamo visto come i rami del diapason vibrino quando questo viene percosso. Com’è questo movimento di vibrazione? L’esperimento due ha messo in evidenza che i due rami oscillano lateralmente.

Percezione

Esperimento 4 – Il diapason su vari oggetti

Percuotiamo un diapason e appoggiamo la sua base, facendo poca pressione, sul banco degli esperimenti. Si ode un suono gracchiante. Ripetiamo l’esperimento appoggiando il diapason con forza sul banco degli esperimenti: si ode il suono grave del diapason in maniera distinta e forte.

Giriamo ora per la classe appoggiando la base del diapason percosso su vari oggetti e materiali quali: muro, lavagna, banchi, pavimento, quaderni, ecc.

vetro affumicato

Figura 13 – Esperimento 5 preso da un quaderno

Esperimento 5 – La traccia del diapason

Bisogna procurarsi un diapason didattico che possiede i rami molto lunghi all’estremità di uno dei quali si trova un piccolo pennino appuntito di metallo. In precedenza abbiamo anche preparato una lastra di vetro affumicandola con fumo di petrolio.

Chiediamo ora ad un allievo di contare i secondi (1..2…1…2). Il maestro entra nel ritmo, a fa scorrere il pennino del diapason (precedentemente percosso) sulla lastra di vetro annerita per la durata di un secondo circa. Per rendere più visibile il tracciato della vibrazione, si può appoggiare la lastra su di retro proiettore. Ripetere l’esperimento facendo diversi tracciati sempre di ca. un secondo di durata.

Rappresentazione

Riepilogo degli esperimenti a memoria prendendo appunti e disegno. Per l’esperimento 4 facciamo anche una tabella di come risultava il suono del diapason sui vari oggetti testati (questa può eventualmente essere compilata durante l’esperimento da un allievo alla lavagna).

L’intero testo per le classi VI, VII e VIII è disponibile per l’acquisto su

www.mirkokulig.com.

Copyright © Mirko Kulig 2021

  1. Informazioni generali della pagina inglese di Wikipedia sull’adolescenza. I singoli articoli o libri a cui si riferiscono queste affermazioni si possono trovare sulla pagina stessa
  2. Definizione presa dalla pagina italiana sull’adolescenza di Wikipedia
  3. In realtà già parlare di Teoria dei colori di Goethe è un errore di traduzione. Il termine da lui usato è Farbenlehre, parola composta da Farben (colore) e Lehre, termine che viene utilizzato in un contesto più ampio come apprendistato, didattica, insegnamento.
  4. Armando Benini, M. D., neurologo, La coscienza imperfetta
  5. Thomas Bearden Energy from the vacuum
  6. Wilhelm Reich, La funzione dell’orgasmo
  7. Wilhem Reich, La biopatia del cancro
  8. James Clerk Maxwell: “A Treatise on Electricity and Magnetism/Part IV/Chapter XX” (1873)
  9. Albert Einstein’s ‘First’ Paper (1894 or 1895)
  10. Einstein, Albert: “Ether and the Theory of Relativity” (1920)
  11. A. M. Polyakov, Gauge Fields and Strings, Harwood Academic Publishers, Chur (1987)
  12. „Untersuchungen über die Ausbreitung der elektrischen Kraft“, Heinrich Hertz, 1894
  13. O.O. 302, terza conferenza, Traduzione dell’Editrice Antroposofica
  14. O.O. 4, capitolo IV, traduzione dell’Editrice Antroposofica
  15. O.O. 4, capitolo V
  16. Riguardo all’utilizzo nella traduzione dell’Editrice Antroposofica del termine conoscenza, in tedesco viene utilizzato il termine Erkenntnis. Erkennen in tedesco significa Riconoscere (una persona, una cosa) ed ha quindi un connotato difficile da tradurre in italiano e che conoscenza non possiede. Sarebbe più corretto dire quindi “Il riconoscere (del concetto relativo alla percezione) deve fornire il pareggio, …”
  17. O.O. 4, capitolo V
  18. La filosofia della libertà, capitolo IV
  19. Cfr. La filosofia della libertà, capitolo VI
  20. Cfr. Il libro di Tobias Richter sul piano di studi nelle scuole Waldorf.
  21. Estratto dal libro Fuoco, calcio, metallo per l’insegnamento della chimica nelle classi VII e VIII
  22. La filosofia della libertà, capitolo III