Mirko Kulig, Febbraio 2014
Nel presente documento ho esposto idee riguardo all’insegnamento delle scienze nelle scuole Waldorf. La concezione che presento è da considerarsi un “work in progress”, nel senso che essa rappresenta l’idea generale che ho in questo momento. Sono cosciente che esperienze future contribuiranno a migliorare la concezione o cambiarne degli elementi.
Ho volutamente cercato di fare il minor uso possibile di concetti usuali dell’antroposofia per mostrare come molte idee di Rudolf Steiner siano derivabili direttamente dall’esperienza attraverso concetti comunemente conosciuti.
Il documento può essere letto e compreso da chiunque. Mi sono riferito specialmente alle scienze perché sono l’ambito che conosco meglio. Nel capitolo “Complemento per i docenti di scienza” ho incluso alcuni approfondimenti di carattere scientifico e tecnico.
Qualsiasi errore di esposizione o interpretazione è da ascrivere completamente a me e non alle persone a cui faccio riferimento.
Alla fine del testo ho incluso cinque scritti di terzi citati per esteso (allegati).
Laddove parlo del programma di studi e delle modalità di insegnamento statali, mi riferisco alla realtà scolastica della Svizzera italiana.
La visione esposta vuole proporre spunti di riflessione che derivano dalla mia esperienza di ex allievo, di insegnante e dal relativo lavoro di studio svolto negli ultimi quattro anni di insegnamento.
Il senso dell’insegnamento delle scienze
Immaginiamo la seguente situazione: siamo in un convegno in cui si trovano 50 persone di qualsiasi estrazione sociale di età compresa tra i 30 e gli 80 anni. Il relatore scrive alla lavagna la seguente equazione chiedendo di risolverla:
7x + 8 = 3x + 28
Per diverse persone la risoluzione di questa equazione non sarebbe immediata. Qualcuno ci riesce per tentativi, qualcuno dotato di particolari attitudini per la matematica ci riesce per intuizione, altri forse si ricordano il metodo di risoluzione, ma in genere penso che soltanto gli insegnanti di scienze, eventuali fisici, matematici, ingegneri e architetti siano in grado di risolvere questa equazione rapidamente e senza difficoltà. E questo nonostante il fatto che sia un’equazione del livello di VIII classe, quindi matematica delle medie.
Come mai non tutti sanno risolverla? Penso che la ragione sia molto semplice. Tutti hanno imparato a risolvere queste equazioni alle medie, ma poi, finiti gli studi, molti non le hanno mai più usate. Hanno dimenticato il procedimento matematico per risolverle perché nella vita di ogni giorno è raro che ci si trovi confrontati con problemi la cui risoluzione richiede la stesura di un’equazione.
La stessa situazione, credo, si presenterebbe se il relatore chiedesse come risolvere un problema basilare di fisica, o il bilanciamento di una reazione chimica, o la spiegazione della formazione del calcare dalle carcasse degli organismi marini, piuttosto che la nomenclatura di tutte le ossa del corpo umano. Tutte queste sono nozioni che si apprendono durante gli studi, e che poi, nella maggior parte dei casi, si dimenticano perché non servono nella vita se non in casi specifici.
Durante il percorso scolastico, fin dalle medie vengono insegnate nozioni e procedimenti che nella vita di ogni giorno non sono strettamente necessari, se non completamente inutili dal punto di vista pratico. Di conseguenza, vengono rapidamente dimenticati.
Perché allora i programmi scolastici (scuola Waldorf inclusa) insistono a portare questi argomenti? La domanda assume ancora più importanza in un’epoca come la nostra in cui le macchine già fanno praticamente tutto per noi, e non vi è quindi una stretta necessità di apprendere tutte queste nozioni.
Si può rispondere a questa domanda dicendo che un giorno qualcun’altro dovrà lavorare per produrre la tecnologia che ci serve oggi e per poterla migliorare. Certamente, in questo senso le università sono grandi istituzioni. Ma ho l’impressione che l’età in cui un uomo deve cominciare a studiare in previsione di un ipotetico futuro accademico si abbassi costantemente. Paesi con l’inizio della scuola a 4-5 anni, creazione di livelli di prestazione scolastica in 3a media o addirittura prima sono esempi di questa tendenza.
Il primo problema che si crea con questa visione “finalizzata” alla professione è che solo una frazione degli esseri umani ha le qualità specifiche individuali per diventare scienziati, e diversi allievi subiscono quindi l’umiliazione di essere “messi nella classe B”. Sentirsi inadeguato non è sicuramente una prerogativa per sviluppare un interesse per il mondo, per il suo funzionamento e per essere stimolati a studiare. Vi è poi sempre una fascia intermedia di allievi che se la cava e che magari si orienta verso le lingue e le scienze umanistiche. Per questi ultimi il carico di matematica e altre materie scientifiche viene spesso vissuto come un peso, in attesa di giungere nei livelli superiori in cui si potranno dedicare di più alla loro specifica aspirazione umanistica.
Il secondo problema di questa visione “finalizzata” è che, con l’introduzione di verifiche regolari, test e bocciature, si parte dal presupposto che tutti gli allievi debbano avere esattamente lo stesso sviluppo negli stessi tempi e giungere ad una particolare cognizione di causa sui diversi argomenti esattamente nello stesso momento. Se non è così, si ha l’insufficienza e forse si boccia.
La situazione viene poi ulteriormente aggravata dal fatto che per il docente, tutti i ragazzi devono aver raggiunto un certo livello nella sua materia, ma dal punto di vista degli allievi, ogni allievo deve raggiungere il livello stabilito dai docenti di tutte le materie. Ricordo a questo punto che questo vale per livelli in cui parte degli adulti faticano già solo in una materia (esempio delle equazioni). In pratica, già dalle medie, aspiriamo a creare dei ragazzi che sanno di più di noi adulti. Sorge la domanda se questa impostazione funzioni. In base alla mia esperienza, ritengo che questa impostazione funzioni parzialmente solo per poche persone.
Dovremmo quindi cambiare il programma, smettere di insegnare alcune materie? Io penso che il programma generale previsto per le medie nella scuola Waldorf sia adatto e non sia un sovraccarico. Dobbiamo però prendere coscienza delle ragioni più profonde per cui si insegnano la matematica e le altre materie scientifiche. La risposta più importante a questa domanda non è in relazione alla preparazione a studi futuri, ma è collegata con le caratteristiche specifiche dello sviluppo dell’essere umano in queste età.
Innumerevoli esperienze dimostrano che con il 12° anno di età sorge la scintilla del pensiero cosciente. Questo fatto è mostrato dal programma pubblico (le medie cominciano con il sesto anno scolastico) come pure da quello Waldorf, in cui viene introdotta la fisica e poi la chimica nel settimo anno scolastico. Ma la grande differenza non sta’ nelle materie insegnate, quanto nel modo di procedere nell’insegnamento. A partire dalla VI classe si cerca di mostrare il mondo con una visione indagatrice, che susciti un interesse di tipo scientifico, di pensiero. Le impressioni del mondo esterno non vengono più solo portate con sentimento come si fa nelle elementari, ma con maggiore rielaborazione di pensiero. Questo processo graduale che parte in VI classe si dovrebbe concludere con la XII classe. Si deve accompagnare il pensiero nel suo sviluppo dando al ragazzo quanto è specificamente utile al suo sviluppo per ogni anno di età.
È mia opinione che l’insegnamento della matematica per accompagnare lo sviluppo del pensiero nel ragazzo va visto più come uno strumento che non una materia fine a se stessa. Nello stesso modo, l’insegnamento della fisica, della chimica, della biologia e della geografia hanno lo scopo principale di insegnare a pensare in relazione all’ambito di trattazione della singola materia, e solo in secondo luogo di insegnare la materia stessa. Le due cose sono strettamente collegate, ma fa la differenza su cosa si pone l’accento.
I vantaggi di un insegnamento impostato in questo modo, sono l’eliminazione di aride nozioni che si dimenticano facilmente e l’introduzione di pensieri viventi nell’insegnamento che vanno realmente ad arricchire il bagaglio di esperienze del ragazzo contribuendo più efficacemente alla creazione di una sua immagine del mondo.
Prima di affrontare l’insegnamento delle scienze nelle superiori, è necessario porsi la domanda: si può ritenere che con la fine del nono anno scolastico, o 15° anno di vita, il ragazzo abbia acquisito conoscenze ed esperienze sufficienti a comprendere il mondo e ad integrarsi nella società? In altri termini, lo sviluppo del ragazzo si conclude con il 15° anno di età? Riconosco di non conoscere le ragioni pedagogiche, se ve ne sono, che hanno portato in Svizzera all’istituzione di 9 anni di scuola obbligatoria.
Valutando la domanda dal punto di vista dello sviluppo fisico, possiamo affermare che certamente la maggior parte degli esseri umani ha raggiunto la maturità sessuale e che i singoli elementi che compongono il corpo fisico umano sono tutti presenti in una forma più o meno definitiva. Dopo i 15 anni di vita vi è però comunque ancora crescita nelle dimensioni e leggeri cambiamenti nelle proporzioni fisiche del corpo.
Dal punto di vista emotivo-sentimentale come pure mentale la situazione è completamente diversa. In concomitanza con l’avvento della maturità sessuale fisica che si compie in questi anni, nascono dimensioni emotive e mentali completamente nuove e sconosciute al ragazzo. Diverse fonti danno indicazione del fatto che durante l’adolescenza si sviluppa il pensiero consapevole e razionale. Sappiamo che Rudolf Steiner indica il terzo settennio di vita (~14-21 anni) come il periodo in cui l’essere umano sviluppa le facoltà di pensiero. Non ho fatto studi approfonditi, ma una veloce ricerca indica che altri psicologi comportamentali riconoscono che durante l’adolescenza vi è un rapido sviluppo cognitivo ed il pensiero dell’individuo acquisisce una forma più astratta. Altri studi hanno mostrato come in questi anni si sviluppano capacità cognitive che permettono la coordinazione di pensiero e comportamento. Ne è stato concluso che i pensieri, le idee e i concetti sviluppati in questo periodo della vita influenzano molto la vita futura di una persona, giocando un ruolo importante nella formazione del carattere e della personalità. Viene inoltre affermato che le facoltà di pensiero di un ragazzo intorno ai 15 anni sono paragonabili a quelle di un adulto. [1]
Il fatto che il ragazzo abbia facoltà di pensare come un adulto non significa ancora che abbia formulato concetti ed idee e raccolto esperienze sufficienti ad ordinare in una visione interiore le percezioni che ha del mondo. A differenza dello sviluppo fisico, che avviene naturalmente con poco influsso umano diretto tranne che la fornitura degli elementi base per le funzioni organiche (calore, aria, acqua, cibo) il pensiero è una facoltà che va formata, per la stessa ragione per cui non basta avere le mani per saper suonare un pianoforte. Come le mani sono requisito necessario ma non sufficiente per suonare il pianoforte, la facoltà di pensiero è necessaria ma non sufficiente a formare un essere umano del nostro tempo.
Si constata quindi che, in concomitanza alla comparsa di nuovi elementi costitutivi dell’essere umano, la società ritiene di aver terminato la formazione di base. Da qui in poi l’unica cosa che conta è l’indirizzo professionale specifico che il ragazzo può prendere possibilmente basato su talenti individuali. Per fare un paragone un po’ provocatorio, sarebbe come se dopo aver insegnato le 4 operazioni di base (+, -, x, 🙂 dessi agli allievi un’equazione da risolvere considerando che comunque, a livello prettamente numerico, non devono fare altro che somme, sottrazioni, divisioni e moltiplicazioni. Ma come la matematica non consiste solo in calcoli numerici, così l’essere umano non consiste unicamente in un corpo fisico. Questa osservazione non necessita di visioni antroposofiche per essere compresa. Oltre 100 anni di società civile e strutturata ci hanno insegnato che persone psicologicamente o mentalmente instabili sono un peso per la società. Quindi la mente e la psiche hanno un impatto sulla società umana e necessitano di essere adeguatamente accompagnate nel loro sviluppo.
Il ragazzo viene inoltre posto di fronte alla decisione sulla sua professione futura in un periodo in cui il suo stato viene definito di “fragilità somatica e psicologica”[2].
Riassumendo, con il sorgere di nuove dimensioni emotive e mentali nel ragazzo, invece di accompagnarlo durante il periodo di sviluppo di queste nuove facoltà, si tende oggi non solo ad abbandonarlo ritenendo che non vi sia più nulla di umano da insegnargli, ma lo si pone impreparato davanti alla prima delle grandi domande che dovrà affrontare in vita. La pressione della decisione viene inoltre incrementata dal fatto che alcune scelte sono praticamente definitive: se non si fa il liceo, sarà molto difficile in futuro andare all’università.
Per le suddette ragioni, e altre che non posso discutere in questa sede, sono quindi dell’avviso che lo sviluppo dell’essere umano non si concluda con i 15 anni.
In base a queste considerazioni, il senso dell’insegnamento delle scienze nelle classi superiori secondo me deve essere quello di accompagnare lo sviluppo del pensiero onde fornire ai ragazzi uno strumento di comprensione della realtà percepita.
Ritengo che le indicazioni dettagliate fornite da Rudolf Steiner sia sul piano di studi che sulla metodologia siano strumenti per accompagnare lo sviluppo del pensiero del ragazzo in maniera adatta all’età.
Resta da definire cosa si intenda per “accompagnare lo sviluppo del pensiero”. Farò un tentativo di approfondimento nelle prossime pagine.
Cercherò ora di presentare alcuni pensieri come da me compresi dell’opera La filosofia della libertà di Rudolf Steiner.
Ci si chiede: come nasce il pensiero? La prima esperienza umana è la percezione. La conseguenza della percezione è la creazione interiore di una rappresentazione. Anche se vedo un oggetto e non so’ cosa sia, nel pensiero posso rivederlo davanti a me. Similmente, posso discriminare un suono dall’altro ripetendone la percezione. Abbiamo una rappresentazione interiore del gusto di una mela che ci permette di distinguerlo da un altro gusto. Questa capacità di discriminazione deriva dalla rappresentazione iniziale della percezione. Con la susseguente esperienza di vita, questa rappresentazione si arricchisce di concetti che la collegano ad altre rappresentazioni.
L’osservazione: “Il cielo sta’ sopra di me” necessita la precedente creazione del concetto “cielo”, del concetto “stare”, del concetto “sopra” e del concetto “me”. Ma anche il concetto “sopra” può solo esistere se vi è un concetto “sotto”, quindi vi è in questa semplice frase già una serie di concetti “intrinseci”. Il fatto importante su cui Steiner pone l’accento è che se si fa l’esperimento di pensiero di risalire ai concetti primari, si constata che questi non possono essersi formati in altro modo che quale conseguenza della percezione. I concetti più complessi nascono quando si mettono in relazione tra loro più rappresentazioni. I concetti “legano” quindi le rappresentazioni.
Il legame di tanti concetti diventa un’idea. L’associazione di idee costruisce teorie e visioni. Le teorie e le visioni ci servono per comprendere la realtà.
Rimando alla lettura della Filosofia della libertà per un approfondimento sui pensieri qui appena accennati.
Quello che ci interessa di questo discorso è il fatto che il processo di associazione di concetti a rappresentazioni già esistenti nel ragazzo non avviene necessariamente da solo. È quindi sicuramente compito delle diverse materie il presentare al ragazzo nuove rappresentazioni e concetti che non ha ancora sperimentato nella vita, ma l’attenzione principale deve essere posta, a mio avviso, sull’associazione dei concetti specifici di ogni materia tra di loro, sui concetti che il ragazzo già possiede, e soprattutto sulla realtà percepita dal ragazzo.
L’insegnamento di concetti e teorie in modo più o meno svincolato dalla realtà percepita dal ragazzo è generalmente poco interessante e poco costruttivo. Se si insegna un nuovo concetto senza “inserirlo” nel tessuto di concetti già presenti nella visione del mondo del ragazzo, esso non ne sarà arricchita e quindi il concetto verrà dimenticato rapidamente. Se rappresentiamo la visione della realtà come un mosaico in costruzione, il nuovo concetto che abbiamo portato dovrebbe diventare un sassolino colorato che ne accresce la definizione. Questo può idealmente avvenire se l’insegnamento del nuovo concetto deriva da un’esperienza reale che entra a far parte dell’orizzonte delle percezioni del ragazzo.
Per esempio, faccio un esperimento in cui mostro come i metalli si dilatano con l’aumento della temperatura. Già questo in sé accresce la rappresentazione della realtà del ragazzo. Il metallo, se scaldato, si dilata. Il giorno dopo richiamo alla memoria esperienze che i ragazzi già conoscono o ne illustro di nuove in cui questo processo fisico si manifesta. Mostro perché questo fenomeno può avere un interesse per l’essere umano (esempio dei ponti che hanno i giunti di espansione). Mostro inoltre come con certi strumenti matematici posso calcolare quanto è questa dilatazione. La rappresentazione collegata ai concetti preesistenti di calore, metallo, dilatazione, ponte, ecc. si è arricchita. Tutti questi sono concetti che derivano dalla percezione. Il nuovo concetto quindi si inserisce nel tessuto di concetti affermati che già esistevano. Il mosaico della visione del mondo del ragazzo possiede un sassolino in più.
Il fatto di “raccontare” che il fenomeno esiste e poi andare direttamente alla formula che ne calcola le grandezze, viene interiorizzato molto meno. Questo anche perché non avendo esperienza del fenomeno, lo si deve prendere dal docente “sulla parola”. Quello che si tenta di fare in questo modo, è di creare una rappresentazione partendo da concetti già esistenti, e non derivata dalla percezione. Vi saranno allievi che accettano e comprendono il concetto anche in questo modo, ma questo a mio avviso vale solo per una minoranza. Partendo invece dall’esperienza e la sua conseguente elaborazione, costruisco associazioni di concetti che sono comprensibili praticamente per tutti i ragazzi perché derivano dalle percezioni che hanno avuto.
Per fare un esempio di vita reale, basta pensare ad un paesaggio. Quante parole e concetti dovrebbero essere usati per descrivere un paesaggio, in confronto al semplice fatto di mostrarlo? Quale dei due approcci (spiegare, mostrare) permette al ragazzo di avere una rappresentazione più chiara di quello specifico paesaggio? Con questo non intendo dire che in specifiche situazioni non sia molto importante permettere, attraverso descrizioni, la formazione di una rappresentazione interiore al ragazzo. Dobbiamo solo ricordare che i collegamenti concettuali automatici che il ragazzo fa nel momento in cui osserva il paesaggio (quella è una montagna, quello è un lago, quello è un bosco di pini, il vento crea delle onde, ecc.) devono essere fatti a parole da noi. Se poi si vogliono aggiungere altre percezioni, come l’odore, il suono, eccetera, il lavoro diventa estremamente lungo e se non fatto bene, pedante.
Quando questo processo di creazione di rappresentazioni attraverso concetti avviene in tutte le materie a ritmi velocissimi con regolare verifica delle nozioni apprese, i pensieri sul fenomeno si riducono all’apprendere l’applicazione delle formule e la memorizzazione delle nozioni. Il sassolino (concetto) rimane orfano e non si inserisce nel mosaico. La nozione viene rapidamente dimenticata quando non è più utile (dopo l’esame).
Dobbiamo poi considerare che anche l’attività di apprendimento è un’esperienza composta di percezioni. Ad ogni percezione si associa anche un’emozione. Un tipo di emozione è, per esempio, “mi piace” e “non mi piace”. La conseguenza di questo fatto è che per associare i concetti specifici di ogni materia alla realtà percepita dal ragazzo, non possiamo non tenere conto delle emozioni e dei sentimenti che si associano all’esperienza di apprendimento.
Personalmente, distinguo l’emozione dal sentimento in questo modo:
L’emozione nasce quale diretta conseguenza della percezione, il sentimento nasce dalla relazione che si crea tra la percezione e l’esperienza (rete di concetti) che l’uomo già possiede. Per fare un esempio, ogni essere umano vive un’emozione di spavento iniziale quando ha la percezione di un tuono. Il semplice rumore forte tendenzialmente causa il sorgere iniziale di una paura. Questa è un’emozione. L’immediata risposta interiore è la ricerca, attraverso pensieri, della causa del rumore. Una volta identificata la causa del rumore, se l’esperienza precedente ha insegnato (attraverso tratti culturali per esempio) che il tuono è la conseguenza della rabbia di un dio, si istituirà un sentimento di timore reverenziale. Se invece l’esperienza ha insegnato che il tuono ha origine con un fulmine che deriva da una distribuzione irregolare di cariche elettriche nell’atmosfera, e che io sono ben protetto in casa da un parafulmine, il sentimento che ne consegue sarà di rilassamento (terminazione dello spavento) e forse pure divertimento. L’attenzione qui non è rivolta alla veridicità o falsità di una delle due spiegazioni, ma solo al fattore emotivo-sentimentale associato alla percezione ed alla sua rappresentazione. Penso quindi che si possa affermare che i sentimenti sono plasmabili dalle esperienze che si fanno in vita, e soprattutto dai concetti che creiamo in merito alle percezioni.
Emozioni e sentimenti forti hanno però anche la conseguenza di influenzare il libero flusso dei nostri pensieri. Se pensiamo al sentimento di paura e insicurezza che si può provare prima e durante un esame, vediamo che spesso causa un blocco delle capacità di formulare pensieri. L’allievo, sotto pressione, non riesce a formulare pensieri e spiegazioni che in una situazione di rilassamento non causerebbero difficoltà.
Un’altra caratteristica che osserviamo nelle emozioni in relazione alle percezioni, è che un’emozione forte favorisce la memorizzazione della rappresentazione della percezione che l’ha causata. Abbiamo tutti memoria specifica di almeno un tramonto spettacolare vissuto durante la vita, anche anni addietro, ma non abbiamo memoria specifica di un normale giorno grigio d’inverno.
L’elemento emotivo-sentimentale dell’essere umano non può quindi in alcun modo essere messo da parte, se vogliamo offrire un insegnamento efficace. Se decidiamo di ignorare questo elemento, semplicemente non ci comportiamo in maniera razionale, perché continua ad esserci comunque.
In questo senso, penso che una delle priorità che dobbiamo dare alla nostra lezione sia che i ragazzi non vivano ripetutamente emozioni spiacevoli nella percezione della nostra lezione e della materia. Se è chiaro che vi sono sempre capacità individuali che determinano la simpatia di alcuni allievi e l’antipatia di altri nei riguardi della materia che presentiamo, dalla mia breve esperienza deduco che è possibile dare ad ogni allievo la soddisfazione di arrivare a risolvere un calcolo o comprendere un fenomeno fisico. Ma soprattutto non penso che un allievo meno portato per la materia debba necessariamente associarle sentimenti di paura, impotenza o odio. Se questo avviene, le conseguenze di questo sentimento potrebbero protrarsi anche negli anni futuri, quando magari non siamo più noi l’insegnante di quell’allievo.
Qui subentra il fattore personale di ogni docente. L’associazione di sentimenti positivi o negativi alla percezione della lezione dipende primariamente dal docente. La capacità del docente di rendere la lezione interessante, facile e formativa attraverso un’appropriata associazione di esperienze e concetti, l’individualità stessa del docente e l’approccio umano che ha con gli allievi sono, soprattutto con ragazzi adolescenti, di grandissima importanza. Questo è un altro fatto che può essere ignorato ma che non cessa di esistere per questo. Ma se non viene ignorato, può in realtà venire utilizzato a vantaggio del lavoro formativo.
In una conferenza durante il convegno di Kassel sulla IX classe in aprile 2012, il relatore di cui purtroppo non ricordo il nome, ha mostrato un grafico simile al seguente (l’ho ricostruito a memoria e vuole dare indicazioni solo qualitative generali).
Come si deduce dal grafico, fino alla pubertà nella vita del ragazzo esistono principalmente i genitori e il docente di classe. Durante e dopo la pubertà i meno apprezzati diventano i genitori, ed i più apprezzati diventano i compagni. I docenti perdono importanza, ma meno dei genitori.
Gli adolescenti in questa età cercano modelli da seguire, come si evince chiaramente dal loro modo di vestirsi e atteggiarsi per copiare i loro divi preferiti del cinema e della musica. I docenti sono buoni candidati per divenire modelli visto che passano del tempo con gli allievi. Se riusciamo a diventare modelli validi per i ragazzi, assoceranno a noi ed alla nostra materia sentimenti positivi ed in questo modo ci sarà più interesse nelle lezioni ed un migliore apprendimento. Se non diventiamo modelli ma rimaniamo “neutrali”, l’interesse dei ragazzi dipenderà da fattori individuali (sono dotati o no per la materia) e dalle nostre capacità di insegnamento specifico della materia. Se diventiamo anti-modelli facendoci detestare, per molti ragazzi diventerà una pena tremenda venire alle lezioni e il livello di apprendimento sarà basso. Quindi per il docente interessato a dare un insegnamento di qualità esistono buone ragioni per essere “simpatico” agli allievi, anche nelle classi superiori. Ma soprattutto, non si deve in alcun modo divenire anti-modelli dei ragazzi, altrimenti la materia che insegniamo sarà pure associata a questo sentimento.
Un atteggiamento che parte da idee di “sofferenza per lo studio”, “sacrificio costante”, ed altri concetti simili in uso ancora oggi, può causare l’associazione di sentimenti spiacevoli all’esperienza di apprendimento, con le conseguenze indicate sopra. Dalla mia esperienza, se si riesce a stimolare negli allievi interesse per la materia e stima per il maestro, si riesce anche a convincerli benevolmente ad impegnarsi quando è il momento, senza la necessità di utilizzare strumenti di leva (note) e minacce.
Rimando all’ampia letteratura di Rudolf Steiner per i dettagli specifici della condizione mentale ed emotiva degli allievi di ogni età. Il punto fondamentale da capire è che, in quanto professionisti, siamo noi a dover comprendere il ragazzo e non il ragazzo a dover comprendere noi. Se la lezione va male, se i ragazzi sono infelici e insoddisfatti, se i ragazzi non capiscono, è principalmente colpa nostra, non loro. Queste situazioni derivano frequentemente dalla nostra mancanza di comprensione delle condizioni emotive e mentali dei ragazzi in quel momento.
Per ritornare alla memorizzazione di percezioni tramite il sorgere di un’emozione forte, anche questo fatto può essere utilizzato a vantaggio dell’apprendimento. Penso che parte delle ragioni dell’approccio sperimentale alle materie scientifiche proposto da Rudolf Steiner derivi anche da questo. Un esperimento fatto in modo tale da suscitare emozioni forti, verrà ricordato meglio. Se poi la spiegazione del fenomeno non è ovvia, vi sarà interesse ed il giorno dopo il maestro avrà l’attenzione dei ragazzi.
Non sono un medico, ma da studi effettuati sui centri funzionali del cervello, risulta che il sistema limbico (composto da ippocampo, amigdala e altre strutture) è la sede dei processi di memoria, emozione e apprendimento. Questo sembra confermare la sensatezza di usare attivamente le emozioni dei ragazzi per insegnare.
Se si condividono le considerazioni esposte nel capitolo “Il senso dell’insegnamento delle scienze nelle classi superiori”, ne deriva che l’approccio pedagogico e didattico deve permettere a tutti gli allievi di trarre beneficio da tutte le lezioni. Questo significa che non può esistere un allievo che alla fine di un’epoca non ha compreso nulla, e non ci si deve neppure attendere che tutti gli allievi abbiano compreso tutto. Senza entrare nell’analisi delle ovvie differenze esistenti tra un allievo e l’altro determinate dai diversi talenti che ogn’uno possiede, si deve anche tenere conto del fatto che le rappresentazioni che ogni allievo ha formato durante gli anni riguardo ad una particolare realtà percepita, sono necessariamente diverse, personalizzate. Nel momento in cui gli allievi arrivano nelle classi superiori, i concetti che sono stati legati a quella particolare realtà percepita dipendono dai genitori, dal maestro di classe delle elementari, dai maestri delle medie, dalle esperienze fatte e dai concetti ed i sentimenti che l’allievo ha collegato da solo alla percezione in questione.
Il maestro dovrebbe cercare di seguire ogni allievo nel suo percorso di associazione delle nuove esperienze e dei nuovi concetti ai concetti ed alle rappresentazioni che l’allievo già possiede.
Nelle ore settimanali di matematica, basare il proprio insegnamento e la velocità con cui si procede solo sugli allievi più dotati è ovviamente sbagliato, come pure non si può andare alla velocità dell’allievo più lento, altrimenti gli altri si annoiano e la lezione ne viene disturbata. Bisogna quindi dare la possibilità agli allievi rapidi di procedere al loro ritmo, come pure seguire gli allievi più lenti nel tentativo di trovare metodologie diverse di esporre i concetti in modo che siano comprensibili anche per questi ultimi.
Spesso può essere un aiuto stimolare i più bravi a spiegare agli allievi meno dotati quello che non hanno compreso. Entrambi ne possono trarre grande vantaggio: i dotati perché devono trovare da soli parole e concetti per spiegare quanto compreso, i più deboli perché la rappresentazione data dai compagni può essere più comprensibile di quella data dal maestro. In questo senso ho fatto diverse esperienze molto positive.
La valutazione poi del singolo allievo deve essere personalizzata in base alla percezione che il maestro ha di ogni allievo. Questo approccio deriva dalla constatazione che, per esempio, un allievo non dotato in matematica che riesce in modo indipendente a fare la metà di un disegno geometrico complesso, ha dovuto impegnarsi molto di più di un allievo dotato per fare il disegno completo. Questa differenza non deve essere motivo di discriminazione per l’allievo meno bravo. Il docente deve imparare a conoscere e valutare ogni singolo allievo per le sue capacità, nella consapevolezza che sforzarlo a fare molto di più di quanto non sia realmente in grado di fare non porta ad un accrescimento delle sue capacità. Anzi, potrebbe determinare il sorgere di complessi e la conseguente associazione di sentimenti non positivi alla materia in cui ha difficoltà. Le conseguenze di questo fatto sono già state esposte nel capitolo precedente.
Sarebbe auspicabile che ogni docente abbia a coscienza le capacità, i talenti e la condizione emotiva e sentimentale di ogni allievo e che esse siano globalmente osservate e valutate. Solo in questo modo vi può essere una reale comprensione di ogni allievo e lo sviluppo conseguente di modi adatti di portargli la materia. Va inoltre tenuto in considerazione che proprio in questi anni le condizioni sentimentali e mentali di ogni allievo continuano a variare, e quindi l’immagine complessiva che il docente si è fatto deve essere dinamica.
In quanto ex allievo di scuola Waldorf, ho personalmente constatato la validità di questo approccio che ha permesso in passato agli allievi più deboli di arrivare alla fine del piano di studi anche se si sarebbe detto che “erano indietro”.
Un ragazzo che era in classe con me, tutto d’un tratto verso la fine della XII classe è fiorito ed ha mostrato di aver interiorizzato una buona parte di quanto sembrava che non avesse compreso negli anni precedenti.
In un altro caso, il ragazzo difficoltoso è poi riuscito ad andare all’università e ottenere un titolo di studio superiore che difficilmente avrebbe ottenuto in un sistema basato sulla valutazione omologata per tutti gli allievi.
Penso che la valutazione individuale degli allievi sia uno degli obbiettivi di una scuola Waldorf, soprattutto nelle classi superiori. Il fatto è anche molto apprezzato dagli allievi che non si sentono “un numero”, ma che sperimentano l’interessamento del docente riguardo la loro persona. Senza entrare nei dettagli, ritengo che questo atteggiamento da parte del maestro sia un grande stimolo allo sviluppo delle forze dell’Io dell’allievo.
È inoltre di somma importanza ricordare che, in quanto maestri, siamo al servizio degli allievi, e non il contrario. Il docente che si considera superiore all’allievo e che ne richiede il rispetto che lui stesso non è disposto a dargli, non sarà mai apprezzato e di conseguenza la qualità dell’apprendimento ne risentirà.
Studi psicologici e criminologici mostrano come generalmente un adulto porterà avanti, consapevolmente o inconsapevolmente, la realtà che ha vissuto da bambino e da giovane. Questo fatto si spiega molto facilmente: l’adulto non conosce un’altra realtà da implementare se non quella che ha vissuto, soprattutto da bambino e da ragazzo.
Ad un docente di scuola Waldorf viene quindi richiesto un grande sforzo per identificare gli atteggiamenti personali e di insegnamento che porta in classe e che hanno origine nella sua esperienza scolastica da giovane e da bambino. Questi atteggiamenti vanno valutati in modo critico ed eventualmente modificati alla luce di quanto esposto da Rudolf Steiner e altri. Il processo è molto lungo e può richiedere anni, ma non per questo va tralasciato.
L’approccio scientifico che generalmente viene proposto nelle scuole Waldorf è quello goetheanistico. È quindi appropriato parlarne in questa sede.
Premetto che non mi considera un esperto di questo tema, avendo cominciato a comprendere razionalmente questo approccio solo di recente dopo essermi impegnato per anni nello studio dei libri di Steiner e quelli di Manfred von Mackensen (autore di libri “didattici” per l’insegnamento delle scienze con approccio goetheanistico). Ritengo quindi incompleta l’illustrazione che tenterò di dare ora, e la includo solo quale stimolo ad ulteriori pensieri da parte del lettore.
Userò il confronto tra le teorie dei colori di Newton e di Goethe che sono un buon esempio dei due tipi di approccio.
Partiamo da Newton. Nel tentativo di comprendere meglio cosa sia la luce, Newton impostò il seguente esperimento:
Attraverso una sorta di cornice, Newton isolò un fascio di luce solare. Questo fascio venne fatto passare attraverso un prisma di vetro. Il fascio che usciva dal prisma di vetro era composto da vari colori, nello specifico, i colori dell’arcobaleno. Newton ne concluse che la luce bianca è composta dai diversi colori che osserviamo dopo che la luce ha attraversato il prisma.
Tempo dopo si è compreso che la luce è un’onda elettromagnetica, che ogni colore rappresenta una frequenza, e che l’associazione delle diverse frequenze crea la luce bianca. Questa è ancora la teoria ufficiale, ma nel frattempo sono stati scoperti i fotoni. Questi sono piccole particelle sub-atomiche (più piccole degli atomi) la cui esistenza spiega certi fenomeni. Il modello ondulatorio e il modello particolare sono oggi complementari. Il modello ondulatorio va bene per alcuni fenomeni, mentre quello particolare ne spiega degli altri. A seconda del fenomeno da spiegare, si usa un modello oppure l’altro.
L’obiezione primaria di Goethe alla teoria di Newton è la seguente.
Il fenomeno di luce come si manifesta normalmente è di luce diffusa nell’atmosfera che illumina l’ambiente circostante. C’è ovviamente una fonte, ma il fenomeno è unitario intorno a me. Quindi l’aver “isolato” un raggio di luce significa l’aver creato un’iniziale condizione sperimentale che differisce dalle condizioni ordinarie del fenomeno della luce. Il raggio isolato viene poi fatto passare attraverso un prisma. Ho creato quindi una seconda condizione sperimentale che è l’interazione della luce con una materia translucida. Goethe quindi obbietta che queste due condizioni sperimentali vanno tenute in considerazione prima di dare un giudizio conclusivo sul fenomeno della luce nella sua manifestazione ordinaria. Osserva che queste condizioni sperimentali hanno quale conseguenza il fatto che vi sia contatto tra luce ed ombra. Dalle sue osservazioni, in cui descrive decine di esperimenti ripetibili, Goethe conclude che i colori nascono quando luce ed ombra interagiscono sotto certe condizioni, e che in questo modo si spiega anche il fenomeno del prisma.
La teoria è più elaborata di come scritto qui, ma l’idea di base dell’approccio di Goethe vuole solo indicare che, per quanto sia giusto e scientificamente corretto creare condizioni sperimentali per studiare nel dettaglio un fenomeno, non si possono trarre conclusioni affrettate senza tenere conto delle condizioni sperimentali stesse che abbiamo creato. Per questa ragione, Goethe fece molti esperimenti nella ricerca di tratti comuni che potessero effettivamente dare una spiegazione veritiera della luce e dell’oscurità, o fornire eventuali limiti alla nostra conoscenza del fenomeno.
Riassumendo, abbiamo da un canto una teoria funzionale che ha permesso migliaia di applicazioni pratiche ma che ci ha portati, da un punto di vista logico e scientifico, in un vicolo cieco. Due teorie (modello ondulatorio e modello particolare) per spiegare lo stesso fenomeno.
Dall’altra parte abbiamo invece una teoria che si basa sulla percezione umana del fenomeno e che indaga il fenomeno sperimentalmente elaborando pensieri solo dall’osservazione diretta.
Se un’osservazione non permette di dire di più su di un dato fenomeno, o non si dice di più, o si creano condizioni sperimentali diverse per analizzare il fenomeno da un’altra prospettiva.
I modelli della realtà che abbiamo oggi, anche se funzionali, sono frutto di teorie che giungono a negare l’affidabilità della percezione quale strumento d’indagine del mondo.
Ricordo che secondo diversi scienziati di oggi, il mondo è grigio, senza odori, senza colori, senza suoni e che tutto quello che percepiamo è illusione dei sensi e creato dal nostro cervello[3].
Ma una teoria della realtà che neghi l’affidabilità della percezione quale strumento di indagine, dimentica che i concetti di base su cui è stata costruita la teoria stessa erano a loro volta conseguenza della percezione. Se parlo di “velocità di un elettrone”, non devo dimenticare che i concetti di “spazio” e “tempo” che determinano il concetto di “velocità” sono derivati dall’esperienza della percezione. Senza percezione, non si potevano creare i concetti di spazio e di tempo. Ma se la percezione non è affidabile e scientifica, allora anche i concetti di spazio e tempo non sono affidabili, e quindi anche la teoria che ne fa uso non è affidabile.
Per le ragioni spiegate nel capitolo “Il pensiero”, vi è una fondamentale contraddizione nel processo di pensiero come lo possiamo osservare in molti ambiti della scienza moderna. Il pensiero nasce dalla percezione, quindi ogni teoria (associazione di idee) che posso fare, si baserà sempre su concetti che derivano dalla percezione. Questa nuova teoria non può quindi arrivare a dire che la percezione è solo un’illusione, perché in questo modo nega la legittimità di sé stessa.
Storicamente osserviamo che circa 500 anni fa nasce un nuovo tipo di pensiero. Intorno al 15° e 16° secolo c’è un rapido aumento del numero di ricerche e di scoperte in molti ambiti scientifici. L’approccio scientifico si impone lentamente quale responsabile della descrizione del mondo fisico. Ma per diversi secoli ancora, la Chiesa rimane un importante riferimento per le questioni umane e spirituali (psicologiche). I consigli regali che si occupavano di valutare le proposte dei grandi esploratori del 16° secolo erano composti da scienziati ed ecclesiastici. Newton riteneva di aver descritto matematicamente alcuni elementi del cosmo, ma è sempre partito dall’idea che vi fosse un creatore che determinava le leggi da lui scoperte. Recentemente è inoltre stato scoperto che Newton si interessava all’alchimia. Darwin sembra aver faticato ad abbandonare l’idea di Dio quale creatore delle leggi naturali da lui teorizzate e descritte. Molti contesti delle scienze naturali hanno escluso storicamente la ricerca delle cause prime di un fenomeno dal loro ambito di competenza.
In passato le cause prime erano competenza della religione. Col tempo, l’evoluzione scientifica ha eliminato le spiegazioni religiose dalla descrizione del mondo, senza che la ricerca nelle cause prime venisse a far parte a pieno titolo delle competenze delle diverse discipline scientifiche. In taluni ambiti le cause prime sono state attribuite al caso o al caos. Diverse discipline scientifiche rimangono comunque ancora oggi “scienze descrittive”, un’impostazione valida fintanto che le cause prime vengono attribuite a Dio, ma scientificamente poco corretta da quando Dio non viene più contemplato.
Questo appare evidente in biologia, in cui si descrivono alla perfezione tutti i processi viventi nel minimo dettaglio, ma non si sa’ ancora rispondere alla domanda “Cos’è la vita?”. Che la domanda non abbia risposta lo vediamo nel fatto che non si è ancora riusciti a creare un essere vivente partendo dagli elementi base di cui è composto (carbonio, ossigeno, idrogeno, azoto, ecc.).
In fisica abbiamo diversi modelli per descrivere i fenomeni (modello classico, modello quantico, modello relativistico), ma il concetto di base di “energia” viene utilizzato ovunque senza avere una spiegazione completa. Si da’ per scontato che l’energia esista come in biologia si da’ per scontato che la vita esista. Vengono investite grandi risorse in applicazioni pratiche, ma il fenomeno nella sua interezza non è compreso e interessa poco.
Ci si basa su teorie che sono state sviluppate da scienziati che credevano in Dio come causa prima di tutto il manifesto, ma nel frattempo Dio non è più contemplato o è stato sostituito dal caso o dal caos.
Con questo non voglio dire che bisogna necessariamente reintrodurre Dio quale creatore di tutto quanto, ma, se si vuole essere veramente scientifici, non si può lasciare senza risposta domande fondamentali quali “Cos’è la vita” e “cos’è l’energia”.
Per un esempio pratico di approccio goetheanistico e l’analisi del decorso storico di una teoria scientifica pertinente a quanto qui esposto, rimando al complemento per i docenti di scienza a pagina 32.
Vorrei ora presentare alcune osservazioni e riflessioni personali riguardo al sistema di insegnamento ad epoche. Premetto che non ho letto tutto quanto scritto da Rudolf Steiner in merito. Le riflessioni si basano quindi sulla mia esperienza di insegnante e sulle mie osservazioni quale ex allievo di Scuola Waldorf.
Durante i miei studi, già in XI classe ho cominciato a notare che argomenti che erano stati trattati un anno prima in un’epoca (per esempio, biologia), quando venivano ritrattati in una nuova epoca, erano in qualche modo stati interiorizzati inconsapevolmente. Vi erano dei concetti di cui divenivo cosciente solo nel momento in cui si ritornava sull’argomento. Mi accorgevo di “sapere di più” ma non capivo perché. Per anni non sono riuscito a comprendere il meccanismo per cui le cose andavano in questo modo. Lo accettavo semplicemente come “una delle grandi trovate di Steiner”. Negli anni recenti poi, essendo diventato maestro, la domanda è risorta e penso di avere compreso alcuni dei meccanismi che determinano questo processo, e che ora esporrò.
Supponiamo che un allievo che non abbia ancora studiato il cuore, faccia l’esperienza di leggere un articolo che parli del cuore. Avendo una rappresentazione del cuore abbastanza generica, l’articolo determinerà la creazione di nuovi concetti in maniera limitata dalla rappresentazione generica che l’allievo ha. Per esempio se si parla di atri e ventricoli, l’allievo ne sentirà parlare per la prima volta. Creerà dei concetti iniziali di questi componenti del cuore, ma gli sfuggiranno altri concetti collegati alla conoscenza di questi componenti. Comprendere per esempio cosa sia una valvola cardiaca dipende dal fatto di conoscere la disposizione degli atri rispetto ai ventricoli, la loro funzione, il flusso del sangue, ecc.. I limiti di comprensione di una determinata realtà dipendono quindi dalle rappresentazioni che già abbiamo di quella realtà.
Supponiamo ora che un altro allievo che abbia già fatto l’epoca sul cuore legga lo stesso articolo. Avendo già una rappresentazione del cuore, questo allievo comprenderà molti più elementi dell’articolo. A loro volta, i nuovi concetti portati dall’articolo andranno ad inserirsi su di una rappresentazione già esistente del cuore, aumentando la comprensione complessiva dello stesso. Avviene un processo di autoeducazione, che rimane però parzialmente inconscio. L’allievo rinfresca e aumenta le sue conoscenze senza rendersene completamente conto. Ora è in grado di comprendere l’articolo molto meglio di prima di aver fatto l’epoca. Questa miglior comprensione permette la creazione di nuovi concetti.
A parte il fatto di rendere meno noioso l’insegnamento sia per il docente che per gli allievi, la trattazione di un argomento per 3-4 settimane ha permesso un’esperienza approfondita di una determinata realtà. Se il docente ha operato bene, si sono create delle rappresentazioni nuove, e si sono creati nuovi concetti su rappresentazioni già esistenti. Queste rappresentazioni dipendono solo in maniera marginale dall’infinita quantità di termini tecnici che si possono fornire (per esempio a biologia).
Con l’inizio di una nuova epoca si cambia ora argomento. L’allievo non pensa più agli argomenti dell’epoca precedente. Fa una nuova esperienza in cui forse prima o poi viene richiamata alla memoria una rappresentazione acquisita nell’epoca precedente. Questa rappresentazione già esistente si collega alla nuova rappresentazione trattata, accrescendo entrambe le rappresentazioni col nuovo concetto che le collega. La rete di concetti si arricchisce di un nuovo collegamento.
Lo stesso processo può avvenire anche nella vita di ogni giorno, in cui un’esperienza qualunque può richiamare alla memoria una rappresentazione elaborata a scuola.
Quando la rappresentazione di un elemento della realtà viene creata attraverso esperienze (per esempio, esperimenti) a scuola, ritengo che si mettano le basi per un reale apprendimento costante durante la vita. La “pausa” che intercorre tra un’epoca e l’altra sullo stesso argomento, permette che i concetti acquisiti si “fissino” nella visione del mondo dell’allievo attraverso la comprensione della realtà resa possibile da questi nuovi concetti. I nuovi concetti vengono “esercitati” e “confermati” nella vita di ogni giorno, diventando parte del modo di pensare. I nuovi concetti permettono nuove osservazioni e la visione del mondo del ragazzo diventa più precisa e dettagliata.
Un sistema scolastico basato su di un orario settimanale non favorisce questo processo per le seguenti ragioni.
Innanzitutto non permette di conoscere la materia come esperienza di vita perché nessuna materia viene trattata tutti i giorni della settimana. Studiando giornalmente 5-6 materie non si ha il tempo di crearsi la rappresentazione di un pezzo di realtà prima che si salti alla materia successiva. La nuova rappresentazione fatica di più quindi a fissarsi nella rete di concetti che compongono la visione del mondo perché in modo parallelo vi sono tanti altri nuovi concetti che vengono portati nelle altre materie. Non appena finisce una lezione la mente del ragazzo è occupata a cercare di comprendere nuovi concetti della prossima lezione. A casa studia poi ogni sera 4 materie.
Nella confusione generale che si crea nella mente del ragazzo, l’unico modo che rimane di fare un po’ di ordine è imparare a memoria le nozioni della materia, rimandando al liceo e all’università la creazione di rappresentazioni e concetti più affermati.
Questo porta al nozionismo globalmente diffuso oggi che non rappresenta però una reale comprensione del mondo, perché ritengo che contribuisca poco alla creazione di nodi nella rete di concetti e rappresentazioni che compongono la visione del mondo del ragazzo. Il processo viene svolto a fatica ed in modo incompleto solo dai “più bravi”.
Questo fatto è stato anche riconosciuto da un gruppo di docenti di scuola media statale ticinese (SOS Scuola), che si sono uniti per proporre una radicale modifica del programma di studi. La proposta include slogan come “fare meno per fare meglio!” e l’eliminazione di compiti a casa per tutta una serie di materie (come biologia, geografia, storia, ecc.) che il gruppo ritiene debbano essere trattate integralmente a lezione attraverso progetti, esperienze e ricerche.[4]
A mio avviso quindi, per il ragazzo l’epoca deve essere l’immersione in un argomento che permetta di associare all’esperienza di insegnamento un’esperienza di vita. Per un mese i pensieri si concentrano principalmente su quell’argomento. Il maestro fornisce un nuovo strumento per descrivere e comprendere meglio la realtà. La fine dell’epoca e l’inizio di un nuovo argomento indicano che ora lo strumento è stato fornito, e può essere utilizzato attivamente dal ragazzo per permettere la creazione di nuovi pensieri (esempio dell’articolo sul cuore dato sopra) e confermare in questo modo la nuova conoscenza acquisita. In questo senso, l’eventuale test di fine epoca deve essere pensato e valutato con cura perché, se il docente ha operato secondo i criteri esposti in questo documento, deve attendersi che la completa interiorizzazione della materia acquisita avvenga solo più in là nel tempo. È mia opinione che se si da troppa importanza alle nozioni, si dirottano le forze dei ragazzi dalla comprensione della materia alla sterile memorizzazione della stessa.
Nell’allegato A ho incluso un estratto del testo di Manfred von Mackensen sull’insegnamento della chimica nelle classi VII e VIII in cui vengono proposte idee per compiti scritti[5].
La tripartizione della lezione
Ricordo che per tripartizione della lezione si intende la suddivisione dell’insegnamento in tre fasi su due giorni. La prima fase è l’esperimento o esperienza di un nuovo argomento. Questa andrebbe iniziata circa a un terzo delle ca. 2 ore di lezione di epoca mattutina. A questa segue una seconda parte in cui l’esperienza viene richiamata alla memoria e discussa attraverso diverse modalità. La terza parte avviene il giorno dopo nel primo terzo della lezione di epoca e prevede la rielaborazione concettuale del fenomeno osservato.
Per una descrizione dettagliata e la caratterizzazione delle tre fasi rimando all’Allegato B che include per esteso uno scritto di Manfred von Mackensen. Consiglio vivamente la lettura dell’allegato B prima di procedere oltre onde rinfrescare alcune idee e concetti utilizzati qui di seguito.
Come osservazione personale, aggiungo che in queste tre fasi si riconoscono anche le tre fasi che intercorrono tra la percezione e la creazione del concetto. Abbiamo infatti:
- Esperienza (percezione)
- Caratterizzazione della percezione (rappresentazione)
- Rielaborazione di pensiero (concetto)
Con questa struttura della lezione seguiamo in maniera dettagliata il processo normale di formazione di pensieri e concetti, come accennato nel capitolo “Il pensiero”.
Riguardo all’utilizzo della notte, oltre a quanto scritto da Mackensen aggiungo che è conoscenza comune il fatto che “la notte porta consiglio”. Dalla mia esperienza in genere, constato che la notte ha la facoltà di “pulire” i pensieri da eventuali emozioni associate e renderli più lucidi. La ripetizione dell’argomento, anche se con approccio diverso nei due giorni, migliora l’interiorizzazione del fenomeno.
Ricordo che essendo questa suddivisione dell’insegnamento su due giorni uno dei suggerimenti di Steiner la cui comprensione non è ovvia, la valutazione della validità del processo andrebbe fatta dal docente direttamente attraverso l’esperienza.
La tripartizione e i tre elementi costitutivi umani
Nello scritto di Mackensen abbiamo l’associazione delle tre fasi della lezione ai tre elementi costitutivi dell’essere umano “fare (volontà), sentire (sentimento), pensare (pensiero)”.
Voglio mettere in evidenza che non si intendono queste tre fasi come momenti singoli e separati in cui esiste esclusivamente l’elemento umano associato alla fase.
Per esempio, nella fase 1 in cui la volontà deve essere l’elemento predominante, non significa che gli altri elementi non debbano esistere. Anzi. Se con un esperimento riesco a causare un’emozione forte nei ragazzi, il ricordo dei ragazzi sarà più nitido per le ragioni esposte nel capitolo “Emozione e sentimento”. L’elemento del pensiero esiste anche durante la fase sperimentale, perché i ragazzi vedono o usano oggetti che associano mentalmente ad oggetti che già conoscono. Una beuta, un bruciatore, una pipetta di vetro, uno specchio, una lente, sono tutti oggetti a cui i ragazzi collegano concetti già esistenti. In questo senso, la volontà del fare è solo l’elemento predominante, non l’unico.
Similmente, nella fase 2 vi è la caratterizzazione della rappresentazione dell’esperimento o dell’esperienza attraverso i ricordi e la riepilogazione dell’esperienza con il susseguente disegno che si associano primariamente alla vita del sentimento, ma non per questo escludono gli altri due elementi. Attraverso il disegnare, per esempio, vi è necessariamente una componente di volontà, e ogni singola linea che viene disegnata richiama concetti che derivano dalla vita di pensiero.
Analogamente, nella fase 3 in cui l’elemento primario è il pensiero, vi sono e possono essere usati proficuamente anche gli altri due elementi. Il racconto di un fatto storico associato all’esperienza richiama forze di sentimento che aiutano il ricordo del concetto. Eventuali scritti o disegni chiarificatori necessitano anche delle forze di volontà.
Esempi di tripartizione in diverse materie
Fornirò ora alcune idee di come penso si possa applicare il concetto di tripartizione della lezione nelle varie materie partendo da esempi pratici. Se il concetto di esperimento è ovvio per la fisica e per la chimica, l’obbiettivo è di sviluppare pensieri riguardo a cosa possa essere un esperimento nelle altre materie scientifiche.
Fisica e chimica
Rimando allo scritto di Mackensen per un esempio nell’ambito della fisica. Aggiungo solo che personalmente considero importante l’esecuzione nella fase 2 del disegno degli esperimenti da parte del maestro sulla lavagna e ricopiato dagli allievi. I ragazzi traggono grande beneficio nell’osservare come il maestro crei davanti ai loro occhi una rappresentazione dell’esperienza. Questo è soprattutto valido nelle medie. Ovviamente se il disegno è particolarmente complesso, può essere preparato prima della lezione, ma in base alla mia esperienza deduco che l’atto stesso di disegnare davanti ai ragazzi abbia grande validità pedagogica.
Un altro elemento con cui ho fatto buone esperienze, è il racconto nella fase 3 di “storie” prese dalla realtà relative all’esperienza fatta il giorno prima. Le storie piacciono a tutti, adulti compresi, e permettono di acquisire elementi che aiutano a collegare alla realtà più ampia i concetti appresi dall’esperimento.
Considerazioni simili valgono anche per la chimica.
Matematica
Cosa si intende per un esperimento matematico?
Si tratta qui di invertire l’impostazione classica. Per introdurre il concetto di “Disposizione semplice” nel calcolo combinatorio, normalmente si fa vedere la formula matematica generale, e si danno poi degli esempi.
In considerazione di quanto detto sin qui, si può pensare invece di proporre ai ragazzi un problema qualunque risolvibile con le disposizioni semplici (esperimento) su cui devono ragionare, darne poi un’appropriata rappresentazione (“quando abbiamo questa situazione, facciamo quindi in questo modo”), e il giorno dopo si fanno i ragionamenti necessari a giungere alla formulazione teorica generale (Dn,k = n • (n-1) • (n-2) • (n-3) •…. • (n-k+1)).
Geometria
L’esperienza di geometria è per sua natura sempre collegata con il disegno geometrico.
L’esperimento geometrico può quindi relazionarsi direttamente con la rappresentazione grafica. Anche qui è utile partire da un esempio preso dal mondo reale che può essere descritto attraverso un disegno geometrico che si esegue quale esperimento. Un riepilogo finale delle operazioni svolte insieme alle aggiunte artistiche (colori significativi) al disegno permettono di affinarne la rappresentazione. Il giorno dopo si elaborano i relativi concetti, arrivando per esempio alla stesura di un algoritmo di costruzione.
Geografia
Non ho ancora mai condotto un’epoca di geografia. Propongo quindi idee da verificare nella pratica.
Per la natura stessa della materia, l’esperimento geografico andrebbe fatto attraverso uscite. Non è ovviamente possibile, con l’attuale organizzazione delle scuole, fare uscite tutti i giorni solo per 2 ore. Sarebbe però pensabile, per esempio nella geologia, fare qualche prova con i diversi tipi di rocce (prove chimiche, prove fisiche). Osservare che tipo di rocce vengono utilizzate nelle case intorno alla scuola. Se si parla dei vulcani, si può introdurre il discorso con il racconto della storia di un’esplosione vulcanica vera. Forse raccontarne una diversa ogni giorno per descrivere i vari tipi di vulcani. In altre materie, ho constatato per esempio che i racconti dell’esperienza del maestro stesso hanno molto successo. Penso che questo sia innanzitutto perché avendo vissuto l’esperienza in prima persona, il racconto è più colorito. Inoltre, gli allievi sono generalmente interessati alla vita del maestro. La storia, se raccontata bene, fa sorgere le domande che poi possono trovare risposta nella spiegazione il giorno dopo.
Posso immaginare un decorso di questo tipo (esempio dei vulcani):
Fase 1: Si racconta dettagliatamente l’esplosione di un famoso vulcano di tipo esplosivo.
Fase 2 (il giorno stesso): si è precedentemente disegnato alla lavagna il vulcano di cui si è raccontato. Alternativamente (ma meno efficace!) si forniscono foto del vulcano in questione. I ragazzi disegnano il vulcano in maniera artistica sul quaderno.
Fase 3 (il giorno dopo): si fa il disegno in sezione e si spiega dove e in che modo sorgano vulcani di questo tipo. I ragazzi sono stimolati a raccogliere sul momento in forma scritta le osservazioni specificamente pertinenti a questo tipo di vulcano. Si procede poi nello stesso modo alla fase 1 con il racconto di un vulcano effusivo. E avanti così.
Potrà sembrare un po’ infantile per una IX classe (quando si studiano i vulcani). Personalmente, dai ricordi che ho, l’esperienza è l’elemento che si ricorda meglio. E tranne il fatto di andare personalmente con la classe su di un vulcano, non trovo un altro modo di far fare un’esperienza ai ragazzi in aula di classe. Un racconto, se fatto bene, è un’esperienza.
Ritengo poi che l’esperimento geografico debba essere sempre presente come idea di fondo quando si fanno uscite scolastiche, di qualunque genere esse siano. I ragazzi dovrebbero essere stimolati, durante le uscite, a fare osservazioni anche sui diversi tipi di paesaggio che incontrano.
Come detto però, queste sono solo idee che non ho mai messo in pratica.
Biologia
Non sono un biologo, ho quindi fatto pochi pensieri in merito a questa materia.
Si può comunque anche qui pensare di far fare ai ragazzi degli esperimenti in prima persona sull’occhio quando questo è il tema di studio. Similmente si può fare con altre parti del corpo. Un racconto può essere utilizzato per quegli organi difficilmente percepibili dal ragazzo (milza, fegato, ecc.).
Anche qui si può pensare di procedere con presentazione (attraverso esperimento/racconto) del nuovo argomento, seguita dalla discussione qualitativa e dal disegno. Il giorno dopo, spiegazione funzionale dell’organo in relazione al resto dell’organismo con raccolta di osservazioni pertinenti in forma scritta.
In tutti questi casi, gli esempi dati vogliono solo essere di carattere indicativo e bisogna adattare la tripartizione della lezione di caso in caso, di materia in materia e di maestro in maestro. Ritengo comunque che l’idea generale dovrebbe essere seguita il più fedelmente possibile.
Vorrei concludere questo capitolo con un esempio preso dalla vita reale che mette in evidenza il normale metodo di apprendimento che tutti preferiamo.
Supponiamo di essere un produttore video dilettante che acquista una videocamera professionale. Apro la scatola, tiro fuori la videocamera, la prendo in mano e ne osservo ogni dettaglio percependone il peso, la maneggevolezza, il design. Se le batterie sono già cariche (cosa comune al giorno d’oggi), la accendo, verifico il funzionamento con un paio di riprese di prova e controllo le varie funzioni. Vi sono poi dei pulsanti e delle funzioni che non conosco. Prendo il manuale per l’uso, identifico il pulsante tramite il confronto con il disegnetto schematico dell’apparecchio sul manuale, e poi leggo i dettagli del pulsante o della funzione. È alquanto inverosimile pensare che prima di tirare fuori la videocamera io legga tutto il manuale. Neppure l’utilizzatore più profano partirebbe direttamente dalla lettura del manuale lasciando l’apparecchio nella scatola. E se lo facesse, potrebbe ricominciare da capo quando prende in mano la videocamera, perché non può ricordare tutte le descrizioni a memoria che si riferiscono ad un oggetto che non ha ancora visto e toccato. In entrambi i casi, ci si vuole prima fare una rappresentazione dell’oggetto attraverso la percezione dello stesso.
I concetti già conosciuti mi permettono di utilizzare parte delle funzionalità dell’apparecchio sin da subito, i concetti sconosciuti devono prima essere identificati come tali. Una volta identificati, si procede nell’acquisire nuovi concetti dal manuale per espandere la nostra rappresentazione.
Il primo passo del processo di apprendimento consiste nella percezione dell’oggetto dell’apprendimento.
Un metodo di insegnamento come esposto in questo scritto ha però il noto svantaggio che a livello nozionale e per quantità di materia trattata, gli allievi di scuola Waldorf non sono sempre “a livello” con quelli di scuola statale. Questo non è in se un problema fintanto che il ragazzo continua a frequentare la scuola Waldorf, ma può diventare un problema quando esce. Onde favorire l’integrazione nel mondo è quindi necessario fare alcuni pensieri anche su questo tema.
Il passaggio ad altre scuole è più o meno difficile a seconda del paese. Nella Svizzera italiana non è particolarmente favorevole, perché come privatista vi è l’obbligo di dare gli esami finali di maturità divisi generalmente in 2 sessioni davanti ad una commissione eletta dalle autorità scolastiche.
In passato gli allievi di XII che volevano fare la maturità, potevano andare alla MARS di Zurigo. La MARS era una scuola specificamente fondata per accogliere allievi di scuole Waldorf di tutta la Svizzera e prepararli entro circa 18 mesi agli esami federali.
Nel 1998 (il mio anno) essendoci diversi allievi interessati, la scuola di Origlio ha organizzato un anno e mezzo aggiuntivo per preparare gli allievi agli esami federali.
In quell’occasione, il risultato non fu particolarmente favorevole (3 promossi, 6 bocciati).
Malgrado ciò, ritengo che l’idea sia valida, e mi permetto di proporre una possibile modalità di realizzazione.
Sono partito dall’idea di trovare una formulazione che permetta di continuare fino in XII a insegnare secondo i criteri esposti in questo documento, ma nel contempo che faciliti ai ragazzi il raggiungimento della maturità federale.
La prima considerazione è riguardo al fatto che nel 1998 tre allievi sono stati promossi. Uno di questi ha anche ottenuto il miglior punteggio per quell’anno in Ticino. A questo va aggiunto che sono a conoscenza di due altri casi negli anni precedenti al mio in cui allievi di Origlio che sono andati alla MARS di Zurigo sono stati promossi. Questo indica che la cosa è fattibile, nonostante il fatto che gli allievi abbiano dovuto adattarsi ad un modo completamente diverso di apprendere ripassando in 18 mesi un programma che richiede normalmente 4 anni.
Gli esami nel frattempo sono cambiati. Nell’Allegato C ho incluso una parte dell’Ordinanza sull’esame svizzero di maturità.[6]
Non ho studiato a fondo tutto il testo, ma da una spolverata generale, mi è sembrato che la quantità di argomenti è a grandi linee paragonabile all’ordinanza precedente. Ciò che cambia radicalmente è che alcune materie che prima prevedevano solo un esame orale (biologia, chimica, storia e geografia) ora prevedono un esame scritto. È stata eliminata la geometria descrittiva, ma in sostituzione vi sono esami aggiuntivi in un’opzione specifica ed una complementare. Vi è inoltre un lavoro di maturità da redigere in forma scritta (3800-4200 parole pari a circa 10 pagine A4). Da quanto si desume dall’ordinanza, pare non esserci più distinzione tra scientifico, linguistico e classico, tranne che nella scelta delle opzioni e nella scelta della materia in cui l’esame si svolge ad un livello di competenza superiore.
L’idea che propongo si struttura quindi nel seguente modo.
In IX classe viene chiesto ai ragazzi di prendere un orientamento: scientifico linguistico o artigianale. Questo comporta 2 ore alla settimana in cui la classe si divide in 3: chi ha scelto lo scientifico fa per esempio fisica, matematica e chimica, i linguisti francese, tedesco e italiano, e chi ha scelto l’artigianale, altre attività artigianali. Per il resto, la classe rimane unità per le epoche e le restanti ore. In quelle due ore, la struttura potrebbe essere ad epoche di ca. 3 mesi l’una, in cui per ogn’uno dei tre argomenti dati sopra, si approfondisce una metodologia (per esempio a fisica) o nozioni specifiche. Nelle lingue si può pensare di cominciare a lavorare ad un’opera letteraria che sarà poi tra quelle che verranno presentate all’esame.
La stessa cosa si ripete in X classe. In questi due anni i ragazzi hanno ancora la possibilità di cambiare orientamento.
Entro l’inizio della XI classe i ragazzi devono aver scelto definitivamente l’orientamento. A quel punto si dedicano più ore alla separazione della classe (4, forse 6 a settimana). Chi ha preso l’orientamento scientifico per esempio abbandona una lingua (da 4 a 3) e dedica quelle ore ad approfondire temi di matematica. La classe rimane unita per le epoche e per altre ore, ma si divide in momenti precisi in cui si procede effettivamente nella preparazione dell’orientamento scelto seguendo la modalità ufficiale (test e compiti). In questo modo i ragazzi possono avere ancora respiro e usufruire dell’insegnamento impostato secondo criteri antroposofici.
A fine XII i ragazzi che decidono di fare gli esami di maturità seguono ancora la XIII e la XIV classe in cui studiano unicamente con lo scopo di passare gli esami.
Se si programma la cosa in questo modo, si può anche pensare di includere nei testi letterari che si studiano normalmente dei testi da preparare per la maturità. I lavori annuali potrebbero essere fatti con la consapevolezza di usarli quale lavoro di maturità. Tanti piccoli accorgimenti di questo tipo faciliterebbero molto il lavoro dei ragazzi negli ultimi 1-2 anni senza incidere troppo sul curriculum Waldorf.
L’idea è solo abbozzata e molto va ancora definito. Mi impegno volentieri ad approfondire i vari aspetti se vi fosse un interesse a valutare una modalità di questo genere.
La pedagogia Waldorf nell’era della tecnologia
Come docenti dell’era moderna dobbiamo confrontarci sempre di più con il dilagante utilizzo che viene fatto della tecnologia. Ci sono i “tradizionalisti” da un lato che sono completamente contrari all’utilizzo della tecnologia, e ci sono i “progressisti” che invece ritengono che, essendo la tecnologia un elemento della realtà odierna, andrebbe portata ai ragazzi.
Riguardo all’effetto della tecnologia sul bambino e sul ragazzo, abbiamo da un canto i promotori della tecnologia già all’asilo quale ausilio educativo, e dall’altro scienziati che sostengono che un precoce utilizzo della tecnologia sia a lungo termine dannosa per il bambino e per il ragazzo.
Anche i risultati delle ricerche e le opinioni degli “esperti” sono quindi contraddittorie.
Onde potersi fare un’idea sull’argomento, includo alla fine del documento un articolo in cui viene presentato l’approccio di Uwe Buermann, scrittore di libri sull’argomento e insegnante di tecnologia presso una scuola Waldorf in Germania (Allegato D)[7], e l’estratto di un testo di Mackensen[8] (Allegato E).
Un’attenta analisi della società moderna a confronto con l’antroposofia e la pedagogia antroposofica, mostra due mondi completamente diversi. La pedagogia statale è generalmente favorevole all’introduzione della tecnologia nell’insegnamento, la pratica pedagogica, soprattutto nell’adolescenza e nella post-adolescenza, è mirata alle richieste del mercato del lavoro. Questo è messo in evidenza da una costante anticipazione dell’inizio degli studi, l’idea di obbligatorietà dell’asilo, ecc.
La pedagogia steineriana invece, aspira a mantenere i principi pedagogici e didattici che riconosce validi per lo sviluppo dell’essere umano.
Mi è capitato in mano tempo fa un quaderno di scuola elementare di mio padre, cresciuto negli anni ’50 in Engadina, Canton Grigioni, in una scuola statale. Se non avessi saputo che non era così, avrei pensato che fosse un quaderno di scuola Waldorf. Il quaderno era scritto a mano e includeva tanti disegni di animali.
Il gruppo di maestri di scuola statale di cui ho parlato in precedenza (SOS scuola) nasce dall’iniziativa di un maestro anziano di scuola statale che ha visto la pratica pedagogica e didattica cambiare durante i numerosi anni di esperienza di insegnamento.
La prima constatazione è quindi che la scuola statale si è allontanata, negli anni, dai principi pedagogici una volta riconosciuti generalmente validi.
La domanda quindi diventa se, con il cambiare della società umana, cambiano anche le esigenze per un sano sviluppo del bambino e del ragazzo.
Dalle idee esposte in questo documento deduciamo che il processo di creazione di concetti che parte dalla percezione passando dalla rappresentazione è sempre ancora un processo importante dell’apprendimento. Ritengo quindi giusto continuare ad insegnare secondo criteri antroposofici.
È però innegabile che sia i docenti che i genitori, e di conseguenza i bambini, sono cambiati quale conseguenza di questa evoluzione tecnologica.
Come è quindi possibile integrare le due realtà?
Il primo passo è che il docente, attraverso considerazioni e letture come quelle proposte in questa sede, si faccia pensieri chiari su quale deve essere il ruolo della tecnologia nella vita umana.
Questo lavoro è necessario perché con l’incredibile velocità dei cambiamenti tecnologici che osserviamo negli ultimi venti anni, non vi è quasi tempo di prendere coscienza e farsi i giusti pensieri riguardo ad una realtà, che già ne viene proposta una nuova.
Anche noi docenti siamo quindi a rischio di cadere nella trappola tecnologica. Per trappola tecnologica intendo il grande stupore e il fascino che si provano quando si ha in mano un nuovo oggetto super tecnologico. Queste emozioni ci portano spesso a dimenticare che l’oggetto tecnologico ha lo scopo originale di permetterci di lavorare meno e meglio, e non è fine a se stesso.
Questo è particolarmente difficile oggi in cui il computer ed il telefonino di 10 anni fa si sono unificati nello smartphone che è estremamente facile da usare, non richiede conoscenze a priori (come è ancora il caso per il computer), e propone un’innumerevole quantità di cosiddette App (applicazioni), che, in buona percentuale, non servono per lavorare ma solo per intrattenimenti vari (giochi, social networks, video, musica, ecc.).
Spesso, quando incontro qualcuno con lo smartphone, mi mostra quanto belle e utili sono le ultime App che ha installato. Mi mostra magari una App che fornisce, puntando il telefono verso il cielo notturno, il nome di tutte le stelle della parte di cielo osservata. Allora, stupito, dico all’amico che non sapevo che si interessasse di astronomia. Risulta poi dalla discussione che è sempre ancora così (non si interessa di astronomia), ma che comunque l’App può essere utile. Sono d’accordo, è una bella App. Il punto è che il tempo trascorso a scaricare e provare tutte le App che esistono non si giustifica se poi le App non si usano per interesse o lavoro ma si fanno solo vedere agli altri per esaltare le qualità dello strumento tecnologico.
Vi è poi il discorso dei social networks. Ho fatto parte per anni di diversi social networks. Vi sono naturalmente vari utilizzi che si possono fare di questi canali, e non si può quindi categoricamente dire che vanno bene o vanno male. Dipende da che uso se ne fa. Se servono a creare gruppi di persone con idee condivise e che quindi si trovano facilitate nelle comunicazioni, non ci vedo personalmente nulla di male. Per quanto riguardo gli incontri, le “amicizie”, ed in generale i rapporti sociali del tempo libero, vi è il grande rischio di cadere nel paradosso di avere 300 amici su Facebook, e neanche uno reale con cui andare a giocare a tennis o uscire a cena. La mia esperienza mi ha mostrato come, attraverso la stesura del “profilo” sul social network e i conseguenti scambi di messaggi chat, molte persone creano un’immagine virtuale di se stesse. Sul social network sono quello che vorrebbero essere ma che non sono nella vita. Attraverso una comunicazione di messaggi scritti, si possono dire cose che non si direbbero se ci si trovasse a quattr’occhi. La realtà sociale virtuale, se non gestita bene, tende a sostituire la realtà sociale della vita normale. Di questo il docente dovrebbe essere consapevole.
Senza entrare in giudizi su cosa è giusto e cosa è sbagliato, appare evidente che bisogna tener conto delle implicazione sociali e umane quando si parla di smartphone, computer, media e internet. Come dice Mackensen nell’allegato E, la questione non è solo di tipo tecnologico perché è resa possibile dalla tecnologia, ma anche di tipo umano.
Per tornare a questioni più pedagogiche, il docente di oggi si trova quindi confrontato con ragazzi che ovviamente desiderano la tecnologia come gli adulti, e che spesso hanno anche un facile accesso ad essa. Il lavoro principale dei docenti diventa quindi, oltre che tutelare i ragazzi quando sono a scuola, di provare a portare questi concetti anche ai genitori. Se il bambino o ragazzo vede il genitore che utilizza il suo smartphone tutto il tempo, c’è da attendersi che ne vorrà uno anche lui. Dalla mia esperienza, basta che un ragazzo della classe venga a scuola un giorno con un nuovo gadget tecnologico, e subito si moltiplicheranno gli allievi che ne acquistano uno. Questo è normale.
Solo attraverso una sensibilizzazione nostra e la conseguente sensibilizzazione dei genitori possiamo quindi sperare di responsabilizzarli riguardo al tema della precoce tecnologizzazione di bambini e ragazzi.
Includo alcune considerazioni che ritengo pertinenti al tema di questo scritto.
Per esempio, Steiner ci indica lo studio della trigonometria in relazione alla topografia quale epoca di matematica in X classe. Come precedentemente detto riguardo alle equazioni, anche qui si potrebbe obbiettare che pochissimi allievi faranno in futuro uso delle conoscenze acquisite in questo ambito, e cioè coloro che diventeranno geometri e architetti. Quale è quindi il senso di insegnare la matematica in questo modo in X classe?
Il semplice insegnamento della trigonometria, strumento necessario per esempio alla topografia, se non viene messo in relazione ad essa o a qualche altro elemento del vissuto umano, rimane un fantastico campo della matematica che ci permette di fare tantissimi calcoli ma che si chiude in sé, senza relazionarsi direttamente con la realtà percepita dal ragazzo. Si da’ per scontato il fatto che l’utilizzo pratico delle nozioni trigonometriche verrà compreso a tempo debito (all’università).
Quando lo studio della trigonometria viene associato validamente allo studio di realizzazione pratica di una mappa, permette ai ragazzi di comprendere e sperimentare quanto il mondo reale antropizzato sia stato misurato e calcolato. Questo fornisce una ragione ovvia allo studio di quello specifico campo della matematica. L’esperienza diretta di “lavorare sul campo” permette inoltre al ragazzo di indagare con sguardo scientifico il mondo che lo circonda, come pure di sperimentare distanze percepite e distanze misurate, angoli percepiti e angoli misurati, eccetera. I concetti visti in classe possono essere vissuti direttamente sul campo.
A confronto con un sistema che insegna la trigonometria solo a livello teorico con lo scopo di passare un esame e poi muoversi sul prossimo oggetto matematico di studio, un approccio di questo genere permette l’acquisizione di “cognizione di causa” sui temi della trigonometria, della topografia, della modifica umana dell’ambiente e la relazione tra questi elementi, anche a quegli allievi che non vorranno fare studi scientifici avanzati. È un approccio che arricchisce, nel senso indicato sopra, ogni allievo della classe. Questo non significa che tutti avranno acquisito le stesse capacità, ma ogni uno avrà arricchito con concetti e idee nuove la propria comprensione del mondo. Avrà inoltre imparato un modo di pensare, oppure avrà applicato alla pratica un metodo di pensiero acquisito in precedenza.
In maniera analoga, l’ampia letteratura antroposofica ci fornisce molte chiavi pedagogiche sul come e sul perché portare una certa materia ad una certa età.
Ricordi della mia esperienza di allievo
Ho innumerevoli ricordi dei miei anni di scuola. Ne descrivo alcuni per dare un’indicazione di quali elementi dell’insegnamento sono rimasti impressi nella mia memoria.
Ancora oggi la conoscenza primaria a cui accedo quando sono confrontato coi concetti di pH, acido e base, è quella che ho dall’epoca di VII classe in cui ho “visto”, “toccato” e “sperimentato” sostanze acide e basiche. La rappresentazione liceale basata su ioni positivi e ioni negativi è abbastanza irrilevante e inutile nella descrizione della maggior parte delle situazioni di vita comune in cui si ha a che fare con questi elementi di chimica. Essendo complicata inoltre, è difficile da ricordare se non si tratta tutti i giorni.
Ho ricordi specifici di esperimenti di fisica e chimica che ancora oggi vengono richiamati alla memoria non appena tratto quell’argomento nella vita di tutti i giorni. All’università ho spesso constatato che le difficoltà dei miei compagni a trovare il percorso giusto per risolvere un problema di fisica erano causate dal fatto che non riuscivano a farsi una rappresentazione di ciò che accadeva nella situazione reale descritta dal problema. Spesso io riuscivo invece a ricordare un esperimento fatto in precedenza che mi chiariva lo svolgimento del fenomeno, indicandomi in questo modo la via per risolvere il problema.
Ho ricordi specifici delle ore impiegate a scuola a disegnare dettagliatamente organi interni quali le reni, il cuore e le ossa.
Ho ricordi dello stupore e l’ammirazione provati nelle elementari quando il maestro apriva la lavagna e c’era un bel disegno colorato. Nello specifico, ricordo l’immagine della seppia in IV o V classe.
Ricordo ancora la prima lezione di matematica in cui abbiamo trattato le potenze: il maestro ha scritto alla lavagna 230 chiedendoci quanto pensavamo che fosse grande questo numero. Ne abbiamo discusso per le 2 ore di epoca, ma il concetto non lo dimenticherò più perché quando ci è stato spiegato quale era il calcolo che bisognava fare (2x2x2x2… 30 volte) veniva fuori un numero immensamente grande!
Di geografia in IX ricordo la croce delle montagne e il racconto dell’esplosione del vulcano St. Helen in nord America.
Delle elementari ricordo anche il concetto di infinito. In un cerchio il maestro ha disegnato un cerchio più piccolo, poi ne ha disegnato un terzo che fosse tangente a quello circoscritto e a quello già precedentemente inscritto. In questo modo si va avanti a disegnare cerchi sempre più piccoli constatando che per ogni spazio che si riempie con un cerchio, si creano nuovi spazi più piccoli, che se riempiti a loro volta, ne creano altri più piccoli, e così via. Diventa chiaro che se si può ingrandire il disegno a piacere, non si finirà mai di disegnare nuovi cerchi sempre più piccoli.
Un amico danese che recentemente ha mandato la figlia in prima classe in una scuola Waldorf in Danimarca, mi ha raccontato il seguente aneddoto. La bambina aveva già fatto l’anno 0 in una scuola ad ispirazione steineriana che non lo aveva soddisfatto. Dopo una settimana che la bambina aveva cominciato nella nuova scuola, il padre le ha chiesto: “Cosa hai imparato questa settimana?” La bambina ha risposto “Nulla”. Allora lui un po’ disorientato le ha chiesto: “Ma cosa hai fatto allora?” E lei ha parlato per 10 minuti raccontando tutte le esperienze che aveva fatto.
Gli insegnanti di scienze che hanno letto il documento sin qui, si chiederanno a giusta ragione se esiste un modello scientifico alternativo a quello attualmente in vigore. Negli ultimi 15 anni il mio percorso di ricerca mi ha portato a studiare approfonditamente il lavoro di diversi scienziati, conosciuti e sconosciuti, su cui darò ora un po’ di informazioni.
Dr. Karl Ludwig von Reichenbach (1788-1869)
Karl Ludwig von Reichenbach fu un famoso chimico, geologo, industriale e filosofo principalmente noto per la scoperta di diverse sostanze chimiche in uso ancora oggi quali la paraffina, il fenolo e altre.
Nel 1839 Reichenbach si ritirò dall’industria per concentrarsi sullo studio del sistema nervoso umano. Studiò malati di neurastenia, sonnambulismo, isteria e fobia confermando precedenti osservazioni che mostravano come queste patologie erano influenzate dalla luna. Ne concluse che questo tipo di malattie tendevano a manifestarsi in persone che definì “particolarmente sensibili”. Con questo tipo di persone fece numerosi esperimenti documentati.
Se una di queste persone sensibili restava al buio per un po’ di tempo e poi osservava per esempio un cristallo, riportava di vedere un “energia” blu all’apice ed un “energia” giallo-rossa alla base. Lo stesso veniva osservato in una grande quantità di altri oggetti ed esseri viventi, come magneti, piante, animali e uomo. Le persone sensibili percepivano queste due energie come piacevole-fresco per l’energia blu, irritante-caldo per l’energia gialla. Reichenbach le definì “Energia Odica Negativa” quella blu, “Energia Odica Positiva” quella gialla.
Scoprì che i poli magnetici della terra sono collegati a questa energia, che gli esseri umani hanno sempre un’alternanza di queste energie tra sinistra destra, sopra e sotto, davanti e dietro.
Spesso questa energia si manifestava in collegamento ad un’attività magnetica o elettrica, ma, secondo Reichenbach, non si trattava di una forma di una di queste due energie, altrimenti non sarebbe stata osservata su di un cristallo o un essere vivente. Ne concluse che è piuttosto l’energia Odica che determina la manifestazione di elettricità e magnetismo.
Scienziato di origine austroungarica vissuto nella prima metà del 20° secolo che, dopo aver studiato psicologia, lavorò con Freud diventandone allievo ed assistente. Si allontanò dall’idea di Freud sviluppando una sua teoria che vedeva le cause di molte malattie psicologiche in uno squilibrio di flussi energetici all’interno del corpo e della pulsazione della vita in collegamento anche all’energia sessuale[9]. Continuò le sue ricerche sull’origine della vita scoprendo che in un vegetale in macerazione si poteva osservare la formazione di piccole bollicine blu (che chiamò bioni) che poi si organizzavano in gruppi fino a creare un vero e proprio protozoo.
Questa osservazione era in contrasto con la teoria ufficiale che riteneva che i protozoi si sviluppano da un germe atmosferico che si ferma in un ambiente favorevole.
Da questi esperimenti ne nacquero altri fino a portare Reich alla conclusione che i bioni sono bolle di energia (che chiamò energia orgonica) e che questa energia è presente ovunque nell’atmosfera. Cercò allora di isolarla per studiarla meglio, e ideò una sorta di gabbia di Faraday modificata dove questa energia poteva venire accumulata. Misurò una differenza di temperatura all’interno di questi accumulatori e vide che questa energia poteva venire osservata stando per un certo periodo al buio dentro un accumulatore. La descrive come “nube” blu-viola con piccoli brillamenti. Provò allora a mettere delle cavie malate negli accumulatori constatando che c’era una buona percentuale di guarigione. Lo stesso si verificava sull’uomo, dove riuscì a guarire anche alcuni casi di cancro allo stadio di metastasi. In generale, questa energia sembrava essere in grado di guarire un’infinita quantità di disturbi[10].
Reich proseguì nelle sue ricerche fino alla morte sviluppando altri interessanti strumenti che non è possibile illustrare in questa sede.
Al giorno d’oggi l’orgonomia (nome che Reich diede alla sua scienza) esiste ancora in America ed in Europa dove vi sono varie istituzioni che insegnano e portano avanti le ricerche nello studio di questa energia (vedi ACO, OBRL). Il direttore dell’OBRL, James DeMeo, ha fatto una tesi di laurea sull’utilizzo di strumenti orgonici.
Ho personalmente riprodotto alcuni strumenti di Reich che utilizzo proficuamente da 15 anni.
Nikola Tesla (1856-1943)
Scienziato parzialmente dimenticato malgrado abbia inventato il sistema a corrente alternata che utilizziamo in tutto il mondo ancora oggi. La parte meno conosciuta del suo lavoro include sistemi per la trasmissione di corrente elettrica senza l’utilizzo di cavi, e molto altro ancora.
Royal Raymond Rife (1888-1971)
Realizzò microscopi che permettevano di osservare materia vivente ad ingrandimenti maggiori di quanto fosse possibile ai suoi tempi. Sosteneva inoltre di riuscire ad uccidere microbi attraverso l’uso di frequenze elettromagnetiche.
Georges Lakhovsky (1869-1942)
Sviluppò strumenti diffusi negli ospedali europei prima della seconda guerra mondiale con cui venivano curate malattie attraverso l’utilizzo di frequenze elettromagnetiche.
Giuseppe Calligaris (1876-1944)
Studiò la relazione tra zone cutanee del corpo e organi interni arrivando a definire mappe che ricordano molto i meridiani della medicina cinese.
William Horatio Bates (1860-1931)
Sviluppò metodi di cura delle disfunzioni visive (miopia, presbiopia, ipermetropia, ecc.). Vi sono numerose testimonianze di miglioramenti e guarigioni complete, anche da parte di altri che portarono e portano avanti ancora oggi il suo lavoro.
John Ernst Worrell Keely (1837-1898), inventore.
Viktor Schauberger (1885-1958), inventore.
Thomas Bearden (vivente), fisico quantistico.
Dr. Ing. Konstantin Meyl (vivente), fisico.
Roberto Maglione (vivente), ingegnere. Ha ricercato e pratica l’orgonomia.
Questa è solo una parte degli scienziati a me noti che, partendo da una formazione accademica, ha scoperto e studiato indipendentemente fenomeni riproducibili la cui realtà è ignorata dall’istituzione scientifica. La ragione per cui ho esposto questa lista di scienziati è che l’insieme dei fenomeni che descrivono e le relative teorie indicano la direzione verso una teoria più unitaria della realtà.
Senza entrare nei dettagli di questa teoria alternativa che non è tema di questo scritto, aggiungo che vi sono numerose prove scientifiche per cui la teoria dell’etere appare essere un modello valido per descrivere una vasta gamma di fenomeni. Invito ogni lettore a raccogliere informazioni sul lavoro di questi scienziati per farsi una propria opinione.
Ulteriori approfondimenti si trovano nel complemento per i docenti di scienza.
Alla luce di quanto esposto, penso che il lavoro di docente di scuola Waldorf sia molto difficile ma anche molto gratificante. Il mondo offre ancora tanto da scoprire in tutti i campi dell’esperienza umana! Il lavoro di insegnante permette di apprendere sempre cose nuove, sia sull’essere umano che sulla materia che si insegna.
La nostra responsabilità sta’ nell’educare nel miglior modo possibile le generazioni future. Se in questo processo facciamo degli errori, l’unica cosa importante è prenderne coscienza e cercare di non ripeterli.
Come ha detto il signor Wecker durante il convegno in autunno 2013 ad Origlio, i ragazzi ci perdonano tutto fintanto che ci mostriamo “Auf dem Weg” (sulla via). Questo a mio avviso significa la presa di coscienza da parte di ogni docente che il processo di apprendimento e di miglioramento della propria persona non termina perché si è diventati adulti e si ha conseguito un titolo di studio.
Ritengo che sia proprio questo il momento in cui inizia il vero lavoro.
Lo studio ci ha fornito gli strumenti concettuali per valutare adesso, attraverso la nostra esperienza personale, la realtà intorno a noi. In questo processo possiamo confermare i concetti che abbiamo acquisito o svilupparne di nuovi se quelli che abbiamo non corrispondono alla nuova esperienza.
In questo senso, ritengo che l’antroposofia possa
essere un aiuto, mail primo passo da
fare è l’impostazione del proprio atteggiamento interiore su di una visione di
sé stesso quale essere in evoluzione
che ha ancora molto da imparare.
Complemento per i docenti di scienza
Seguono alcuni approfondimenti di carattere scientifico.
Nel programma di VII classe di fisica come proposto da Manfred von Mackensen, viene suggerito di introdurre con l’elettricità i concetti di tensione (Volt) e corrente (Ampère). Sono quindi indicati una serie di esperimenti che mettono in luce questi fenomeni.
Il modello di fisica classica prevede che la corrente elettrica sia il movimento di particelle subatomiche, gli elettroni, nel filo di rame. Vengono presentati dei disegni in cui gli elettroni, rappresentati come pallini, scorrono nel filo. Più tardi, al liceo e poi all’università, viene aggiunto che in realtà gli elettroni si muovono solo a 0.1 mm/s. Ma il campo elettrico si propaga comunque ad oltre 200’000 km/s. Sorge la domanda di come questo possa avvenire, e a domande di questo tipo anche all’università ricevevo risposte evasive. Ricordo lunghe discussioni dopo la lezione con il professore di fisica riguardo al modello con cui descriviamo i fenomeni elettrici, che a mio avviso non spiegava bene i fenomeni osservati. Il professore ha spesso convenuto con me che il modello andrebbe migliorato. Ma nel frattempo il modello si dava già per scontato e quindi l’importante era concentrarsi sulle formule, che funzionano. Altre volte la risposta rimandava alla fisica quantistica, che noi non studiavamo e quindi non potevamo capire.
Come maestro delle medie, io posso quindi spiegare il fenomeno come flusso di pallini. Quello che gli allievi non comprendono, lo rimando alle classi future. Al liceo arriva una nuova verità più dettagliata, che se non compresa rimanda all’università. All’università, se vi sono domande specifiche, si rimanda alla fisica quantistica che non si studia in tutte le facoltà.
In questo modo si presenta ai ragazzi un modello che non da’ indicazioni percepibili del fenomeno che osservano, e a cui devono quindi credere. Alla fine, tranne forse il fisico quantistico, nessuno comprende bene il fenomeno. E questo vale sempre di più per tutte le materie. Solo l’esperto è qualificato per conoscere realmente la verità. Ma solo nella sua specializzazione.
Ricordo bene la prima lezione di fisica all’università. Il professore ha spiegato di come esista la fisica classica (Newton) e la fisica quantistica. Ha poi detto che la fisica quantistica ha negato più o meno tutto quanto dice la fisica classica. Ha concluso dicendo che noi avremmo studiato solo la fisica classica. Io ho quindi domandato perché. Ha risposto che il modello classico è un’ottima approssimazione.
Spesso i modelli fisici che si spiegano vengono confutati più avanti nello studio. Per il fisico quantistico l’orbita dell’elettrone in un atomo è descritta come “la probabilità che in un dato punto si manifesti un dato fenomeno energetico”. Questa definizione differisce non poco dal pallino che ruota intorno al nucleo dell’atomo. Tutti quelli che non fanno studi superiori, non hanno la possibilità di farsi un’idea chiara e veritiera di cosa sia la corrente elettrica. Fornendo ai ragazzi una rappresentazione come quella dei pallini (elettroni) che non sperimentano nella loro esperienza, li obbligo a dover credere in me. Dove si differenzia questo modo di procedere da un dogma? Oltretutto, gli esperti di oggi dicono qualcosa di molto diverso da quello che si insegna nelle classi medie e superiori!
Torniamo all’esperimento di VII classe. Creo una batteria con dei vasetti, delle piastre metalliche ed un elettrolita. Collego la batteria ad una lampadina. Avviene qualcosa quando il circuito di celle e lampadina viene “chiuso” da cavi di rame. La lampadina si accende e le lastre di metallo nell’acido della batteria si corrodono (questo si può osservare nelle placche che si sporcano le une e si puliscono le altre). Concludo che l’amperaggio rappresenta quindi il duplice fenomeno di corrosione di alcune placche della batteria e dell’accensione della lampadina. Altri esperimenti permettono poi di osservare ulteriori fenomeni ed in base alle relative conclusioni formulate in modo analogo, si espanderà il concetto di corrente. Di più non posso concludere.
Si può chiaramente obbiettare che in questo modo non riesco a seguire il programma, che fuori dalla scuola Waldorf impareranno diversamente, ecc. ecc.
Il punto è che nelle scienze dobbiamo insegnare il metodo scientifico. Fornendo modelli e teorie non comprovate dall’esperienza dei ragazzi, impostiamo l’insegnamento della scienza in maniera dogmatica. I ragazzi, quando giungono all’università, si sono abituati a non fare domande per crearsi una loro rappresentazione del fenomeno e accettano i modelli e le teorie date perché sono abituati così dalle classi medie (e forse prima). Ho potuto personalmente constatare questo fatto all’università.
Penso che ogni scienziato converrà che in teoria questo è esattamente l’opposto del vero scopo dell’insegnamento della scienza.
Il vantaggio maggiore di un insegnamento fenomenologico sta’ nel fatto che attraverso l’esperimento, il ragazzo crea da solo una rappresentazione di un pezzo di realtà. Insieme al docente poi si arricchisce questa rappresentazione con considerazioni, riflessioni ed esempi. La rielaborazione dell’esperimento insegna inoltre un metodo di pensiero. In questo modo, anche tutti quegli allievi che non vorranno studiare meccanica quantistica, avranno una rappresentazione del fenomeno, nel nostro esempio, della corrente elettrica.
Aggiungo come nota personale che sono diversi gli esempi a mia conoscenza di allievi steineriani dotati per le scienze che hanno compiuto con successo studi superiori. Questo approccio non penalizza quindi lo studente.
Analisi della creazione di una teoria
Nel 1865 James Clerk Maxwell pone le basi matematiche per la descrizione delle onde elettromagnetiche. Egli raccoglie in una formulazione matematica le osservazioni che erano state fatte. Il fenomeno viene descritto da 20 equazioni differenziali a 20 variabili. Le equazioni fanno utilizzo di un sistema numerico chiamato quaternioni che estende i numeri complessi. Va specificato che lo sviluppo di queste equazioni partiva da una teoria che includeva ancora l’esistenza dell’etere nello spazio quale medium in cui le onde elettromagnetiche si propagano.
Nel 1884 un altro fisico, Oliver Heaviside riformula 12 delle 20 equazioni di Maxwell in 4 equazioni vettoriali a 2 incognite, eliminando 8 equazioni perché ritiene che descrivono fenomeni arbitrari. Queste 4 equazioni sono ancora oggi chiamate Equazioni di Maxwell, anche se sono una derivazione solo parziale del suo lavoro. Queste equazioni fanno parte delle fondamenta delle teorie di elettrodinamica classica, ottica classica e dei circuiti elettrici (si usa il termine “classico” perché oggi ci sono anche le teorie quantistica e relativistica).
Nel 1887 poi, gli scienziati Albert Michelson e Edward Morley fanno un esperimento che viene considerato la prova definitiva dell’inesistenza dell’etere.
Vi sono altri che sostengono che le teorie di Einstein formulate in seguito mostrano come gli esperimenti di Michelson e Morley non dimostrino nulla. Sono però una minoranza.
Oggi utilizziamo le equazioni di Maxwell che derivano da un lavoro originale molto più ampio e complesso e che partiva da un presupposto (l’esistenza dell’etere) che poi in seguito è stato confutato. Persone molto più esperte di me in fisica di questo genere, ritengono che con l’eliminazione da parte di Heaviside di 8 equazioni dall’originale formulazione di Maxwell, si siano eliminati tutta una serie di potenziali fenomeni dalla possibilità di essere osservati e compresi nella loro natura[11]. L’eliminazione dell’esistenza dell’etere dal modello elettromagnetico intacca uno dei concetti filosofici vigenti quando è nata la formulazione originale di Maxwell.
Senza esprimere giudizi in merito alla validità delle equazioni e delle teorie, questo processo di creazione di una teoria appare per lo meno un poco confuso.
Condizioni simili le incontriamo anche in altre discipline della conoscenza scientifica. In paleontologia ogni nuovo ritrovamento di fossili può modificare parti della teoria complessiva.
Non si critica qui la legittimità di affinare la teoria con l’apparire di nuove prove, ma la convinzione, precedente alla nuova prova, che la teoria fosse completa e definitiva.
Questo si distingue dal giusto rigore scientifico in quanto ogni nuova prova andrebbe analizzata e valutata senza preconcetti. Si ammette oggi che certe teorie non spiegano tutto, o che non sono definitive, ma non si valutano positivamente nuove prove che non si inseriscono direttamente nelle teorie esistenti.
Se uno scienziato si presenta con esperimenti ripetibili che mostrano fenomeni non contemplati dalla teoria, deve fornire anche una teoria alternativa (già questo è discutibile perché un fenomeno ripetibile rimane un fatto anche se non spiegato). Se la teoria che lo scienziato fornisce si discosta troppo dalla teoria ufficiale, la prova viene semplicemente dimenticata o considerata falsa. Gli scienziati nominati nel capitolo “Scienziati poco conosciuti” sono esempi di questo genere.
In questa situazione di confusione, il goetheanismo ci viene in grande aiuto. Finché le nostre conclusioni si limitano a quanto osserviamo, non possiamo sbagliare. Ma nel frattempo i ragazzi imparano un metodo veramente scientifico.
Con questi esempi non voglio dire che le teorie vigenti oggi siano tutte sbagliate e non debbano essere insegnate.
Appare comunque chiaro che non sono definitive nella maggior parte dei campi della scienza.
La cautela nel presentare queste teorie quali verità è quindi d’obbligo.
Non ho fatto troppi pensieri sulle classi XI e XII, ma penso che sicuramente fino alla VIII classe non si debbano insegnare teorie che non possano essere direttamente derivate dall’esperienza dell’allievo. Se poi nelle classi alte si vogliono introdurre teorie ufficiali non direttamente derivabili dalla percezione, vanno per lo meno inquadrate chiaramente quali teorie e modelli matematici e non come fatti definitivi e verità assolute. Questo è particolarmente importante per quelle teorie che si scontrano direttamente con la realtà percepita (per esempio mondo grigio in teoria, mondo colorato nell’esperienza).
In relazione a quanto scritto nel capitolo “Scienziati poco conosciuti” sulle teorie dell’etere, includo alcune citazioni di scienziati famosi (la traduzione è mia).
James Clerk Maxwell, 1873:
“In diverse parti di questo trattato è stato fatto un tentativo per spiegare i fenomeni elettromagnetici attraversa l’azione meccanica trasmessa da un corpo ad un altro tramite un medium che occupa lo spazio tra di loro. Anche la teoria ondulatoria della luce assume l’esistenza di un medium. Dobbiamo mostrare che le proprietà del medium elettromagnetico sono identiche a quelle del medium della luce.” [12]
Albert Einstein, 1894-1895:
“La velocità di un’onda è proporzionale alla radice quadrata delle forze elastiche che causano la sua propagazione, e inversamente proporzionale alla massa dell’etere messo in movimento da queste forze.” [13]
Albert Einstein, 1920:
“Possiamo dire che secondo la relatività generale, lo spazio è dotato di qualità fisiche; in questo senso esiste un etere. Secondo la relatività generale lo spazio senza un etere non è pensabile; questo perché in uno spazio del genere non solo non ci potrebbe essere propagazione della luce, ma pure non ci sarebbe la possibilità di esistenza di standard quali lo spazio ed il tempo (righello e orologio), neppure quindi intervalli di spazio-tempo in senso fisico. Ma questo etere non può essere pensato come dotato di qualità caratteristiche dei mezzi ponderabili, come consistente di parti che possono essere seguite nel tempo. L’idea di movimento non può esservi applicata.” [14]
Paul Dirac, 1951:
“La conoscenza della fisica è avanzata molto dal 1905, soprattutto dall’arrivo della meccanica quantica, e la situazione [riguardo la plausibilità dell’etere] è nuovamente cambiata. Se si esamina la domanda alla luce della conoscenza di oggi, si trova che l’etere non è più escluso dalla relatività, e vi sono buone ragioni oggi per postulare un etere…….. Abbiamo adesso la velocità in tutti i punti dello spazio-tempo, che ha un ruolo fondamentale nell’elettrodinamica. È naturale considerarla come la velocità di qualcosa di reale. Per questo, con la nuova teoria dell’elettrodinamica [vuoto riempito di particelle virtuali] siamo abbastanza costretti ad avere un etere.”
Alexander Markovich Polyakov, 1987:
“Le particelle
elementari che esistono in natura assomigliano molto all’eccitazione di un
medium complesso (etere).” [15]
[1] Informazioni generali della pagina inglese di Wikipedia sull’adolescenza. I singoli articoli o libri a cui si riferiscono queste affermazioni si possono trovare sulla pagina stessa
[2] Definizione presa dalla pagina italiana sull’adolescenza di Wikipedia
[3] Armando Benini, M. D., neurologo, La coscienza imperfetta
[4] http://sosscuola.wordpress.com/
[5] Manfred von Mackensen Fuoco, calcio, metallo
[6] http://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19983437/index.html
[7] Versione in lingua originale reperibile su http://www.erziehung-zur-medienkompetenz.de/Der-richtige-Weg
[8] Estratto del libro Suono, Luminosità, Calore di Manfred von Mackensen per l’insegnamento della fisica nelle classi VI, VII e VIII (pagine 243-244)
[9] Wilhelm Reich, La funzione dell’orgasmo
[10] Wilhem Reich, La biopatia del cancro
[11] Thomas Bearden Energy from the vacuum
[12] James Clerk Maxwell: “A Treatise on Electricity and Magnetism/Part IV/Chapter XX” (1873)
[13] Albert Einstein’s ‘First’ Paper (1894 or 1895)
[14] Einstein, Albert: “Ether and the Theory of Relativity” (1920)
[15] A. M. Polyakov, Gauge Fields and Strings, Harwood Academic Publishers, Chur (1987)